Amore è un telefono che non suona
Lettere 15 righe!
re 6.50 radiosveglia. Ore 6.55 sveglia del cellulare. Due, per avere la certezza di alzarmi in tempo. Posiziono il telefonino nel punto dove prende meglio. In bagno velocemente, mi lavo, primo caffè, salgo a controllare che il cellulare prenda. Ore 7.20 cresce l’ansia. Mi metto al computer, leggo il giornale online, le mail. Ore 7.40: «Cavolo, mi sono ricordata di alzare la suoneria?». Salgo a controllare. L’ansia si trasforma in amarezza. Ore 9.00: la scuola non ha chiamato neanche stamattina, niente supplenza. Cerco di respingere le lacrime e con tanta forza di volontà mi preparo a un’altra giornata da inventare, a reddito zero, sola. Se questo non è vero amore!
—Ketty Non sono sicura, Ketty, di avere inteso il senso che assegni tu all’esclamazione che conclude la tua lettera. So però che l’ho trovata perfettamente coerente con quel che scrivi. e allora provo a dirti quel che ho inteso io, e perché secondo me la tua conclusione non fa, come si dice, un plissé. Per tutti il lavoro – per una donna anche di più – non è solo un mezzo per portare a casa del denaro con cui vivere più o meno modestamente o sontuosamente. Averlo o non averlo non cambia solo il contenuto delle tasche ma anche il sentimento che ciascuno ha di sé, del proprio valore, del posto che occupa – o non occupa – nella comunità di riferimento: il lavoro, insomma, è un affare di cuore. Per questo il tuo, Ketty, mi pare proprio amore vero. Le tue mattine accorate raccontano di vero amore per te stessa, per i lunghi anni di studio che ti permettono di ambire oggi a insegnare. Per i progetti, per i sogni. Per quell’idea bella di guadagnarsi da vivere, e dunque assicurarsi indipendenza e autonomia, con le proprie competenze, i propri talenti, grazie alle fatiche affrontate e superate. Per quell’idea bella di riuscire, un giorno, ad attraversare le giornate, le settimane e i mesi potendo scandire, grazie a un lavoro, il tempo dell’impegno e quello del riposo, il dentro la casa e il fuori nel mondo, il privato e il pubblico, la solitudine e la socialità: avere un lavoro significa anche questo, significa godere di quella ritualità che assicura senso e guida i gesti. e infatti tu, Ketty, i rituali te li sei data da sola: la sveglia, l’altra sveglia, il controllo del telefono, l’attesa ansiosa ingannata dalla lettura dei giornali… Rituali propiziatori, in un certo senso, una sorta di «come se». Un senso che induce rispetto e tenerezza, perché c’è cura per te stessa in quei risvegli. Sì, il lavoro è un affare di cuore e la tua lettera, Ketty, entra a pieno titolo su questa paginetta lucida dedicata ai sentimenti. tieni duro, Ketty, carica le sveglie, controlla la suoneria: la tua storia d’amore con te stessa lo pretende.