Vanity Fair (Italy)

Amore è un telefono che non suona

Lettere 15 righe!

- Di Irene Bernardini, psicologa

re 6.50 radiosvegl­ia. Ore 6.55 sveglia del cellulare. Due, per avere la certezza di alzarmi in tempo. Posiziono il telefonino nel punto dove prende meglio. In bagno velocement­e, mi lavo, primo caffè, salgo a controllar­e che il cellulare prenda. Ore 7.20 cresce l’ansia. Mi metto al computer, leggo il giornale online, le mail. Ore 7.40: «Cavolo, mi sono ricordata di alzare la suoneria?». Salgo a controllar­e. L’ansia si trasforma in amarezza. Ore 9.00: la scuola non ha chiamato neanche stamattina, niente supplenza. Cerco di respingere le lacrime e con tanta forza di volontà mi preparo a un’altra giornata da inventare, a reddito zero, sola. Se questo non è vero amore!

—Ketty Non sono sicura, Ketty, di avere inteso il senso che assegni tu all’esclamazio­ne che conclude la tua lettera. So però che l’ho trovata perfettame­nte coerente con quel che scrivi. e allora provo a dirti quel che ho inteso io, e perché secondo me la tua conclusion­e non fa, come si dice, un plissé. Per tutti il lavoro – per una donna anche di più – non è solo un mezzo per portare a casa del denaro con cui vivere più o meno modestamen­te o sontuosame­nte. Averlo o non averlo non cambia solo il contenuto delle tasche ma anche il sentimento che ciascuno ha di sé, del proprio valore, del posto che occupa – o non occupa – nella comunità di riferiment­o: il lavoro, insomma, è un affare di cuore. Per questo il tuo, Ketty, mi pare proprio amore vero. Le tue mattine accorate raccontano di vero amore per te stessa, per i lunghi anni di studio che ti permettono di ambire oggi a insegnare. Per i progetti, per i sogni. Per quell’idea bella di guadagnars­i da vivere, e dunque assicurars­i indipenden­za e autonomia, con le proprie competenze, i propri talenti, grazie alle fatiche affrontate e superate. Per quell’idea bella di riuscire, un giorno, ad attraversa­re le giornate, le settimane e i mesi potendo scandire, grazie a un lavoro, il tempo dell’impegno e quello del riposo, il dentro la casa e il fuori nel mondo, il privato e il pubblico, la solitudine e la socialità: avere un lavoro significa anche questo, significa godere di quella ritualità che assicura senso e guida i gesti. e infatti tu, Ketty, i rituali te li sei data da sola: la sveglia, l’altra sveglia, il controllo del telefono, l’attesa ansiosa ingannata dalla lettura dei giornali… Rituali propiziato­ri, in un certo senso, una sorta di «come se». Un senso che induce rispetto e tenerezza, perché c’è cura per te stessa in quei risvegli. Sì, il lavoro è un affare di cuore e la tua lettera, Ketty, entra a pieno titolo su questa paginetta lucida dedicata ai sentimenti. tieni duro, Ketty, carica le sveglie, controlla la suoneria: la tua storia d’amore con te stessa lo pretende.

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