La notte dei topi e dei fantasmi
Passiamo le giornate a sbuffare per il trillare delle notifiche sui nostri smartphone. E poi ci sono sere, come quella del 13 novembre, quando tutto è diverso. Con una breaking news che vedo apparire sullo schermo dell’iPhone verso le 21.30 – c’è una sparatoria in corso – parte la ricerca affannosa – sempre più concitata man mano che arrivano le notizie di nuovi e nuovi attacchi – di una figlia ventitreenne che il venerdì sera è quasi sempre introvabile, in questa che i signori dello Stato Islamico considerano una capitale di «abominio e perversione». E quando alla fine arriva un rapido sms – «Cena a casa mia stasera mamy!» – è il più bel regalo che la vita potesse farmi. Attaccata alla Tv con il laptop sulle ginocchia a scrivere lancio dopo lancio per VanityFair.it, negli occhi le immagini dei ragazzi in fuga dal Bataclan e dalla morte, ho pensato a questa generazione Erasmus non a caso presa di mira e fatta a brandelli – trenta vittime resteranno a lungo non identificate – dai macellai della libertà. Giovani con il dna dei viaggiatori. Curiosi, tolleranti, lontanissimi da ogni bigotteria. Quelli che amano la musica, e le dolci serate d’autunno passate nei bistrot a bere vino e coltivare i sacri riti dell’amicizia e dell’amore. E quando più tardi mi sono chiusa alle spalle il portone di casa mia, in un quartiere allegro e vivo come è il Marais, mi sono trovata di fronte un deserto urbano irriconoscibile. Avevo letto che a Parigi ci sono milioni di topi, Ratatouille grossi come gatti, capaci di mandarti all’ospedale con un morso, ma non ne avevo mai visti così tanti. Nello spazio lasciato libero dagli umani, rintanati per la paura, hanno avuto la loro notte di gloria. Incredibile quanto vulnerabili siano alla fine dei conti le grandi città, in apparenza invincibili, ma poi basta qualche uomo carico di odio, esplosivo e bulloni per mandare in tilt il sistema, e far uscire dal sottosuolo animali che credevi relegati dalla storia nelle fogne. Non li dimenticherò i volti disfatti dalla paura, il trucco sbavato dal pianto, le lingue di tutto il mondo rotte dai singhiozzi, i fantasmi che si aggiravano dalle parti del Boulevard Voltaire, in cerca di un modo per tornare a casa in una città paralizzata. «Ci dica dov’è la Gare de l’Est, vogliamo prendere il primo treno per Strasburgo», mi hanno implorato due biondine dell’età di mia figlia. Mi pento di aver loro indicato minuziosamente la strada, e di averle anche accompagnate fino a place de la République. Avrei dovuto dissuaderle, pregarle di restare. Spero che tutti i ragazzi che vivono qui, che amano la musica, la cultura, il buon cibo, lo sport e tutte le belle cose della vita, restino. Sulla mistica del suicidio, sull’oscurantismo e l’odio, devono vincere la vita, l’amicizia, lo scambio amoroso e la libertà sessuale. Libertà che non mi erano mai sembrate così essenziali e irrinunciabili come alla fine di questa lunga notte.