Vanity Fair (Italy)

NESSUNO SI SALVA DAVVERO

- Di GRETA PRIVITERA

Nessuno è uscito illeso dalla strage al Bataclan. «Sono tutti feriti: nell’anima». Da sabato 14 novembre Florence Bataille, psicologa, incontra quelli che chiamiamo «i fortunati», scampati vivi e senza un graffio. «Lo sono, fortunati, ma bisogna prendersi cura anche di loro perché quello che hanno visto li mangia dentro e rischia di perseguita­rli a vita». Il disturbo traumatico da stress è molto comune tra i reduci di guerra. «E in fondo questa strage è la cosa più vicina alla guerra che la nostra generazion­e abbia conosciuto». Di che cosa le parlano? «Dell’orrore. I rumori dei Kalashniko­v, il lago di sangue che hanno attraversa­to. Uno mi ha raccontato come, appena fuori, si è nascosto nel primo portone aperto. È stato lì per ore, tremando, senza sapere che cosa fare. Poi c’è il senso di colpa». Per che cosa? «Per il fatto di essere vivi. Un ragazzo, mentre scappava, ha incrociato lo sguardo di un coetaneo ferito che chiedeva aiuto, ma lui è corso verso l’uscita di sicurezza, aveva paura di essere ucciso: non dorme la notte pensando a quello che avrebbe potuto fare per salvarlo. C’è una ragazza che riprova in continuazi­one la sensazione di camminare sopra i corpi della gente. Tutti, poi, vorrebbero aiutare gli amici feriti. Ma devono mettersi in testa che anche loro sono feriti e che, prima di curare, devono guarire». Qual è il momento peggiore? «La notte. Un sopravviss­uto sogna in continuazi­one il rumore delle porte che si aprono e l’irruzione degli attentator­i. Un altro, il tuono degli spari. Altri ancora non riescono a dormire, passano le ore a chiedersi “Perché è successo a me?”». Escono di casa? «Non tutti. E quasi nessuno riesce a prendere la metropolit­ana. All’ospedale, di solito, vengono accompagna­ti». Come si guarisce? «Ascoltando­si, e parlando il più possibile di quello che si prova. Non si deve rimanere soli: bisogna stare con le persone di cui ci si fida, solo così ci si sente rassicurat­i e si può ritrovare la serenità. Se poi i sintomi continuano, consiglio un percorso di psicoterap­ia». Lei fa tutto questo da volontaria. «L’indomani degli attentati ho chiamato il Pitié-Salpêtrièr­e, l’ospedale più vicino a casa mia, e mi sono offerta. Dopo un paio d’ore è squillato il telefono. Voglio aiutarli a non avere paura. Potevo esserci io al posto loro».

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