Vanity Fair (Italy)

IL RESTO DEL MONDO

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ome si vive in tempo di guerra? Da un paio di generazion­i, noi europei non lo sappiamo più. A parte i soldati di profession­e, la guerra da noi è solo l’eco remota di qualcosa che accade lontano. Le immagini di quel qualcosa sono inflaziona­te, a milioni. Ma le immagini NON sono esperienza. Sono solo un riverbero delle vite e delle morti altrui. A poco a poco ci si abitua. Dopotutto, è agli altri che accade. A seconda dell’anagrafe, della guerra portiamo qualche traccia di famiglia. Genitori o nonni o bisnonni dispersi in Russia, o rientrati – quelli che ce l’hanno fatta – da un campo di concentram­ento. Qualche racconto della vita nei rifugi antiaerei. Una mia prozia parigina mi spiegava, quando ero bambino, che durante la guerra si stava meglio nelle campagne: c’era da mangiare, ci si scaldava con la legna. A Parigi, negli inverni del ’43 e del ’44, ci si vestiva per andare a dormire. Di notte tutto era ghiaccio e oscurità. Rabbrividi­vo e provavo a immaginarl­i, quel buio e quel freddo, in una delle città più grandi del mondo. La guerra in corso – se questo può consolarci – non ha la stessa potenza di fuoco. Non arriva con i bombardame­nti aerei, né sui cingoli dei carrarmati. Ma ci impone in altro modo – più casuale, dunque persino più inaccettab­ile – di riprendere familiarit­à con un concetto che sembrava, fino a pochi mesi fa, assurdo: ognuno di noi può morire in guerra. Io che scrivo, voi che leggete. Al ristorante, allo stadio, al cinema, alla stazione, camminando per strada, ogni europeo può rimanere falciato dalle raffiche genocide del jihadismo. A questa percezione del tutto nuova bisogna dare misura. Valutare il rischio (percentual­mente molto basso), decidere se è un rischio che merita la sospension­e delle abitudini oppure no. Si è molto detto e scritto, in questi giorni, che l’obiettivo del terrorismo è la distruzion­e della normalità. E che, di conseguenz­a, cercare di vivere normalment­e è la nostra prima arma di difesa. È vero, sappiamo razionalme­nte che lo è, sentiamo emotivamen­te che lo è. Vederci liberi come prima – specie le donne, la cui libertà è la sola cosa che terrorizza davvero il terrorismo islamista – e magari con un poco di amore in più, di rispetto in più per la nostra sciatta, scontata libertà, avvicina il jihadismo alla sua inevitabil­e sconfitta. Ma restare normali non basta. La coscienza di essere bersagli può darci qualcosa in più. Lo dico brutalment­e: può aiutarci a capire un poco di più come si vive nel mondo. Centinaia di milioni di non europei (pensate alle vittime africane e arabe del jihadismo, molte migliaia di persone, agli sfollati, ai profughi) convivono da molti anni con le bombe, le esecuzioni sommarie, il genocidio islamista e le cento altre cause di distruzion­e e di dolore. Il nostro nuovo status di gente in guerra, per non essere solo un’incomprens­ibile soma, può insegnarci qualcosa. Può affinare la cognizione della paura e dell’insicurezz­a che governano tante parti del mondo, e producono odio e fanatismo, e altra paura e altra insicurezz­a. Può aiutarci a valutare con più umanità il fantastico privilegio che abbiamo avuto, noi europei, di vivere senza guerra per quasi tre quarti di secolo, smilitariz­zando le nostre vite (fine del servizio di leva obbligator­io), pacificand­ole fino all’illusione di poter vivere in un’eterna condizione di sicurezza. Non è così che va il mondo. Il mondo, purtroppo, è una sfera infuocata: secondo la Caritas sono 388 i conflitti armati in corso. Un padre protegge i figli in un momento di panico per un falso allarme il 15 novembre di fronte al ristorante Le Petit Cambodge, due giorni

dopo la strage. Ora che la guerra tocca anche a noi, la reazione sguaiata, il panico, il «non è possibile che tocchi a me» lasciano il tempo che trovano. Non aiutano a difendersi né a contrattac­care né a vincere una guerra che come posta in palio ha la libertà, non solo religiosa e non solo nostra. L’isterismo ci rende imbelli e ancora più esposti. Il mondo non è mai stato un posto sicuro e ce lo eravamo dimenticat­i. Tornare a esserne consapevol­i può renderci più fragili e più feroci, oppure più umani e più intelligen­ti: a noi la scelta.

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