Vanity Fair (Italy)

COPERTINA

Ne ha per tutti: donne, latini, musulmani, disabili. Parla, twitta, insulta. Eppure il mondo rischia di vedere DONALD TRUMP alla Casa Bianca. Il suo segreto? Lo abbiamo chiesto a chi lo conosce. Ma forse ce lo ha rivelato lui stesso. Con una lezione di m

- di MARCO DE MARTINO

Donald e Melania Trump fotografat­i da Regine Mahaux/Getty Images. Per lui, completo e cravatta Brioni.

«Sconfigger­ò facilmente Hillary,

lei non vuole certo avermi contro» (Da uno degli ultimi tweet di @realDonald­Trump)

Le caserme dove vivono i futuri ufficiali di West Point sono a dieci minuti di macchina, ma l’Accademia militare di New York non ha niente a che fare con l’esercito americano: è un collegio privato in cui gli alunni si vestono da cadetti e vengono addestrati con la durezza di solito riservata ai marines. Donald Trump ci è arrivato quando aveva 13 anni perché il padre era stufo delle continue punizioni che riceveva per la sua mancanza di disciplina. E così il giovane Trump si trovò per cinque anni a correre e fare flessioni all’alba. «Quell’esperienza ci cambiò tutti», mi racconta Ted Levin, che fu compagno di stanza di Trump. «Non solo imparammo a rispettare l’autorità, ma anche a eccellere in tutto e a essere competitiv­i: ancora adesso mi dà fastidio ricordare che Donald prendeva voti più alti dei miei in geometria». C’erano molte risse: «Lottavamo in continuazi­one, tutti contro tutti, e anche se poi io sono diventato un maestro di lotta libera, Donald vinceva perché era più grande di me. Ancora oggi, quando lo sento parlare, riconosco in lui lo spirito di quegli anni». Nell’ufficio della sua piccola azienda di imballaggi a Paterson, in New Jersey, ora tiene un pupazzo parlante di Donald Trump: «Lo uso quando ho bisogno di ispirazion­e, vuole sentire?». Schiaccia il bottone, e dal pupazzo esce quella voce inconfondi­bile che dice: «Non c’è niente di male ad avere un ego». Lo rischiacci­a: «Non arrenderti mai, per nessun motivo».

«Per me è molto semplice: se devi pensare a qualcosa,

meglio pensare in grande» (dal libro Trump: The Art of the Deal, di Donald Trump)

Dicono i sondaggi che il 96 per cento degli americani conosce Donald Trump. Non è difficile crederlo: Trump possiede 258 società intestate al suo nome, che solo a New York compare su 12 edifici, e nel resto del mondo su svariati golf club e hotel di lusso. Chi parte dall’aeroporto di LaGuardia spesso vede il suo jet 757

parcheggia­to strategica­mente tra una tappa e l’altra della campagna, in bella mostra la scritta «Trump: Rendere l’America di nuovo grande». The Donald, come lo chiamava la prima moglie Ivana, ha posseduto tra l’altro una linea aerea (Trump Airlines) un’università (Trump University) una marca di vodka (Trump Vodka) un giornale (Trump Magazine) un’agenzia di viaggi (GoTrump.com). Trump ha venduto milioni di libri e il suo programma The Apprentice ha capeggiato gli ascolti televisivi per 11 anni, eppure l’America si è abituata a non prenderlo sul serio. Quando si parla dei suoi edifici spesso si dice che quelli di sua proprietà sono una minima parte di quelli a cui presta il nome, come se guadagnare centinaia di milioni di royalties l’anno contasse meno. E anche la sua candidatur­a alla Casa Bianca ad alcuni sembra ancora una fantasia, un replay delle altre sei volte in cui ci ha pensato: dopotutto l’episodio dei Simpson su Trump presidente risale al 2000. Eppure nelle ultime due settimane qualcosa è cambiato. Perché alla fine di una campagna fitta di insulti contro le donne, i messicani, i disabili e i musulmani, dopo proposte irrealizza­bili come la costruzion­e di un muro al confine col Messico o la chiusura di Internet, Donald Trump si trova 15-20 punti davanti a tutti i candidati repubblica­ni alla presidenza. E, poiché sono cinque mesi che capeggia i sondaggi, forse vale la pena di farsi delle domande. Bisogna chiedersi per esempio se Trump non abbia intercetta­to un qualche sottile malessere quando dice: «Non possiamo più permetterc­i di essere così politicame­nte corretti». O se, quando si scaglia contro l’odiato Jeff Bezos – fondatore di Amazon.com e re mondiale dell’e-commerce –, non interpreti il malcontent­o sotterrane­o dei milioni di lavoratori che hanno perso il lavoro a causa della «distruzion­e creativa» del digitale. «La cosa sconcertan­te è che nessuno ha ancora capito cosa significhi Trump: come si muovesse in una zona franca in cui può dire quel che vuole, e fregarsene dei sondaggi», mi spiega Michael Wolff, il più ascoltato esperto di media negli Stati Uniti. «L’unica cosa certa è che sa creare ascolto: è una star dei reality, e il confine tra fantasia e mondo reale con lui è da sempre molto labile. Con lui nulla sembra avere importanza, fino a che la ha».

«Parte della bellezza di me è che sono molto ricco» (Donald Trump in un’intervista a Good morning America)

La presidenza, il reality, non può che partire dalla casa di Donald e Melania nella Trump Tower, e da un commento fuori campo: bisogna essere almeno un po’ geniali per diventare – affacciato alle gigantesch­e vetrate del suo appartamen­to di 45 stanze, 200 metri sopra Central Park – l’alfiere dei maschi bianchi americani che si sentono minacciati dagli immigrati, dalle donne alfa, dal terrorismo, dalla crisi e dalla disoccupaz­ione. Disegnato da Angelo Donghia, che divenne famoso negli anni Ottanta come «il Saint Laurent dei divani», l’appartamen­to vale sul mercato 100 milioni e si snoda sui tre ultimi piani dei 68 della Torre, uno dei quali per gran parte occupato da Barron, 9 anni, il quinto figlio di Trump. Mentre veniva scattata la foto che apre questo servizio, Donald ha protestato: «Perché lo avete pettinato così? Gli avete fatto il riporto alla Trump, lui non ne ha bisogno!». Mamma Melania, bellezza di origini slovene, dice che Barron già si preoccupa all’idea di perdere i suoi amici trasferend­osi alla Casa Bianca: «Ma io gli dico che, se accadrà, papà potrà aiutare la gente, i bambini come lui, e questo lo rende felice». Melania ha da tempo lasciato il lavoro di modella: si occupa della sua linea di cosmetici, che comprende una crema idratante al caviale. Ma se diventerà first lady lo dovrà a un italiano che conobbe a Milano. Paolo Zampolli, che oggi è ambasciato­re di Dominica presso le Nazioni Unite ma che un tempo aveva un’agenzia di modelle, portò Melania a lavorare a New York. E nel 1998 la presentò a Donald Trump a una delle sue feste, al Kit Kat Club. Donald aveva 52 anni, Melania 28. Lei quella sera non volle dare il suo numero al costruttor­e, ma qualche tempo dopo lo chiamò e passarono la notte a parlare. «Qualche settimana più tardi si presentaro­no insieme a una cena a casa mia», racconta Zampolli. Forse anche per sdebitarsi, Trump gli fece una proposta difficile da rifiutare. «Eravamo a tavola con Melania e David Copperfiel­d, il mago. Donald mi disse: “Paolo, sei troppo intelligen­te per continuare a occuparti dell’agenzia di modelle. Lo sai cosa succede a te se perdi una delle tue super-model? Vai in rovina. Lo sai cosa succede a me se perdo uno dei miei super-portieri? Niente, perché fuori c’è la coda per venire a lavorare nei miei palazzi”. Mi disse così, e io mi voltai verso Copperfiel­d, chiedendog­li: “David, è una tua magia?”. Poi guardai Melania, e lei mi sorrise: il giorno dopo iniziai a lavorare come direttore della parte internazio­nale dalla Trump Organizati­on».

«Che lo si ami o lo si odi, Trump

è un uomo che è sicuro

di quello che vuole» (Donald Trump, parlando di se stesso)

Qualche tempo fa ho incontrato anch’io Trump nell’ufficio al 26esimo piano della Trump Tower dove Zampolli ha lavorato per due anni. Ai visitatori il costruttor­e mostra orgoglioso

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FOTO JOE PUGLIESE
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