PARTICOLARE
Le parole non sono solo parole, sempre. Per intenderci, certo che uno può affermare «il lavoro rende liberi», però se decidi di scriverlo in tedesco (« Arbeit macht frei ») e in ferro battuto sopra il cancello di casa, quelle stesse parole acquistano un significato diverso, e tu sei tenuto a saperlo, non puoi trincerarti dietro un «non sapevo», «io lo uso sempre», «cheppalle ’sto politicamente corretto», «allora adesso non si può scrivere più niente nemmeno sopra la porta di casa propria?!». Così come la legge non ammette ignoranza, anche il linguaggio la mal tollera. Il significato delle parole dipende dal contesto, perché il linguaggio è un codice condiviso all’interno di una comunità e muta nel tempo e nello spazio. Ma le parole sono anche memoria di ciò che hanno significato. La parola «finocchio» usata come insulto ha diverse etimologie, fra queste c’è chi sostiene che derivi dal fatto che quando la Santa Inquisizione bruciava vivi sul rogo streghe e omosessuali, lo faceva in piazza per ammonire tutti, però, per non infastidire troppo i benpensanti con l’odore acre della carne umana che sfrigola urlante, venivano gettate nelle fiamme piante di finocchio selvatico; quindi si urlava «Finocchio!» mentre un omosessuale stava bruciando vivo nella piazza cittadina. Anche tutte le altre ipotesi etimologiche rendono questa espressione un insulto particolarmente doloroso per la comunità LGBT. Lo stesso Mastroianni, nella struggente quanto memorabile scena di Una giornata particolare, non appena urla «frocio» - e lo urla per dire «sono stufo di nascondermi, mi avete fatto così tanto male che sono disposto a usare il vostro insulto pur di poter finalmente gridare al mondo chi sono» - viene subito assalito dalla memoria di ciò che a quella parola seguiva: la sodomizzazione pubblica con una stecca da biliardo. Quando l’altra sera ho visto l’allenatore del Napoli urlare «Frocio! Finocchio!» ho pensato a quanti ragazze e ragazzi, che magari proprio quella sera intendevano fare coming out, devono essersi detti: «No, non oggi, non è il momento, non è il mondo giusto», rimandando a chissà quando l’inizio della propria vita. Se nel momento di massimo agonismo, di maggior rabbia, quando non hai null’altro a disposizione se non l’ingiuria, il più terribile insulto che ti viene in mente è «frocio», come può un giovane non pensare che l’omosessualità sia la peggiore delle sventure? Come può non vivere nel terrore di essere scoperto? La cosa che mi addolora di questa vicenda (incluse le scuse e il dibattito che ne è seguito) è che ci si dimentica di ricordare che «omosessuale» non è un insulto o una colpa. Io al signor Sarri, che è personaggio pubblico, primo in classifica e dovrebbe essere d’esempio, più che giornate di squalifica comminerei ben altra pena: lo obbligherei a girare un video in cui dice chiaramente che se sei gay questo non è affatto un problema, che non verrai mai giudicato per il tuo orientamento sessuale, che chi afferma il contrario sbaglia e lo fa perché non sa quello che dice, perché essere gay è bellissimo, tanto quanto non esserlo. Io non penso che se qualcuno mi dà del finocchio debba andare in galera, non già perché creda che l’omofobia non esista o non uccida quotidianamente in tutto il mondo, ma perché non riesco a comprendere uno Stato che addita i propri cittadini quali «omofobi», quando è lo Stato stesso il primo omofobo d’Italia, perché io a tutti gli effetti sono un cittadino di serie B per colpa della politica; quindi, paradossalmente, se per strada tre ragazzotti mi gridano «Non vali nulla! Serie B! Serie B!!», tecnicamente, loro sono nel giusto. Anche per questo ci servono leggi che sanciscano «a prova di scemo» che io sono normalissimo, uguale a tutti gli altri, adatto alla serie A.