Vanity Fair (Italy)

NON DITE: «IN CAMPO È COSÌ»

I tifosi accoglieva­no JUSTIN FASHANU al grido di «fatti toccare il culo». Finché lui, stanco di mentire, fu il primo calciatore a fare coming out. E finì suicida. A Sarri, sua nipote manda a dire che è tempo di evolversi. E ai calciatori gay, che la stori

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Cinque minuti dopo il fischio finale, Napoli Inter del - 19 gennaio ha smesso di essere solo una partita di calcio: un allenatore (Sarri, del Napoli) dà del «frocio» al rivale Mancini, che lo denuncia in Tv. Poi si scopre che lui aveva usato la stessa parola per insultare un giornalist­a. In qualunque modo la pensiate (e per qualunque squadra tifiate), la soglia di tolleranza per l’omofobia nel calcio è ancora troppo alta. Per capire che non sono mai solo «insulti e sfottò», c’è un nome che dovete ricordare: Justin Fashanu. Inglese di origini nigeriane, è stato il primo calciatore gay in attività a fare coming out, prima di morire suicida nel 1998. Era un idolo, poi le voci sulla sua omosessual­ità cominciaro­no a girare, doveva subire le battute del suo allenatore, i cori in ogni stadio: « Sei grosso, sei nero, fatti toccare il culo». Invece di nasconders­i o di negare, andò al Sun e raccontò tutto. Era il 1990. Suo fratello John, anche lui calciatore, ha raccontato quel momento come «l’Hiroshima della nostra famiglia: ne uscimmo tutti distrutti». Se per John è una storia di rimpianti, per Amal, sua figlia, lo zio Justin è un eroe. Amal ha 27 anni e ha fatto della lotta all’omofobia nel calcio la battaglia della vita. Mi risponde al telefono da Londra, ha letto gli articoli sul caso italiano. «Mi fa infuriare quando dicono che sono “cose di campo”: nonostante i microfoni e le telecamere, noi non abbiamo idea di quello che succede davvero in campo e in spogliatoi­o. Per questo i calciatori non fanno coming out, perché hanno paura di vivere un inferno». Amal, modella e presentatr­ice Tv, aveva 11 anni quando Justin si impiccò: «Non voglio più imbarazzar­e i miei amici e la mia famiglia», lasciò scritto. Il calcio lo aveva messo ai margini ed era inseguito da un’accusa di violenza sessuale negli Stati Uniti, da cui sarebbe stato scagionato. «Era un uomo spiritoso, se incontrava un senzatetto gli lasciava tutti i soldi che aveva in tasca, era la luce di ogni stanza in cui entrava. Ma era omosessual­e, era nero, era religioso e faceva il calciatore, immagini lei il coraggio che ha avuto per andare a dire a un giornale: “Sono gay”. E non lo ha fatto per una battaglia politica, lo ha fatto perché era stanco di vivere una bugia». Nel 2012 Amal ha girato BritainÕs Gay Footballer­s, un documentar­io sull’omofobia nel mondo del calcio: voleva capire perché nessun campione dopo suo zio avesse fatto coming out (il tedesco Thomas Hitzlsperg­er lo ha fatto nel 2014, ma ha atteso la fine della carriera). Amal ha mandato centinaia di richieste di interviste, praticamen­te a ogni squadra inglese. «Ho scoperto che il tabù andava oltre ogni immaginazi­one. Calciatori etero, sposati e con figli, terrorizza­ti di essere sempliceme­nte avvicinati alla parola omosessual­e, per questa idea che il calcio sia una cosa da gladiatori, che solo un vero uomo possa essere veloce e aggressivo. Per loro gay vuol dire femmina e femmina vuol dire debole, quando io stessa sono più alta e forse fisicament­e più forte di Messi. Ma come faccio a spiegare a questi maschi che la loro visione del mondo andava bene al massimo per gli anni ’40?». C’è un modo, dice Amal, per cambiare le cose: «Un calciatore di alto livello, in attività, che faccia come Justin. Allora il calcio non era pronto, oggi sarebbe diverso, i grandi brand non vedono l’ora di mettere sotto contratto un calciatore gay, il rugbista Gareth Thomas ha guadagnato di più dopo il coming out che in tutto il resto della carriera. I soldi degli sponsor vanno in quella direzione». E i tifosi? «Seguiranno i soldi, come sempre».

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