E SE FOSSERO GLI UOMINI A USARE IL VELO?
Il 1° febbraio, giornata mondiale dell’HIJAB, le non musulmane sono invitate a indossarlo per «avvicinare» le culture. Ma è davvero un gesto di solidarietà? Un esperto ha dei dubbi (e una proposta)
L’hashtag è #worldhijabday. Il 1° febbraio tutte le non musulmane del mondo sono invitate a coprirsi i capelli e il collo: «Una scelta», spiega l’ideatrice della campagna, la newyorkese di origini pakistane Nazma Khan, «che non ci mortifica, ma ci dà libertà, e ci protegge, come perle nell’ostrica, dagli sguardi maschili». E che le donne occidentali dovrebbero provare, anche solo per un giorno, per poterla capire. Ha senso? L’irritazione in Europa non manca: per esempio un «contro-hashtag», lanciato da due deputati francesi, è # tousAvecUneKippah, tutti con il copricapo ebraico, in solidarietà con l’ebreo aggredito a Marsiglia nei giorni scorsi. «In realtà a noi europei non è il maschilismo del velo che disturba», spiega Bruno Nassim Aboudrar, storico dell’arte e autore del saggio Come il velo è diventato musulmano (Raffaello Cortina Ed., pagg. 204, € 19). «L’Europa mica è esente da disparità, abusi e sopraffazioni sulle donne. Pensiamo solo alla violenza, o alla differenza negli stipendi che nessuna legge ha ancora sanato. O alla cura familiare, che ricade sempre più sulle donne che sugli uomini e anche in Paesi avanzati come la Germania costringe molte a lasciare il lavoro». Qual è allora il problema che abbiamo con le donne velate, secondo lei? «Mille, duemila anni fa, il velo era importantissimo per i cristiani. San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi dice che la donna va velata perché dipende dall’uomo; i primi moralisti cristiani invocano la sua “protezione” dalla concupiscenza maschile e addirittura scrivono che la donna non deve spendere soldi in vestiti preziosi visto che il suo corpo, se fosse venduta, varrebbe un decimo delle sue vesti. Il Corano, di contro, accenna al velo solo in qualche punto». E che cosa è cambiato? «Mentre le società occidentali hanno sviluppato, nei secoli, un culto della
trasparenza – della pubblicità degli atti di legge, del vedere, del non tenere nascosto –, nella cultura islamica è prevalso, grazie a scritti moraleggianti del Medioevo, i cosiddetti fiqh, un amore per il nascondimento. Aggiungiamo il colonialismo, secoli dopo: l’Occidente ha avuto spesso uno sguardo sprezzante nei confronti delle usanze arabe e maghrebine, e queste popolazioni hanno reagito rivendicandole. Le donne del Maghreb indossano oggi veli neri e integrali, tipo burqa, che non appartengono a quei luoghi: nel Nord Africa ci si copriva il capo con un fazzoletto bianco, simile a quelli del Sud Italia. Ma oggi il velo è soprattutto una dichiarazione di identità, la rivendicazione di una cultura». Dunque portarlo, nel World Hijab Day, potrebbe essere un modo di avvicinarsi a questa cultura e capirla? «Potrebbe. Ma sono scettico. Da un lato ogni iniziativa antirazzista, e questa in parte lo è, è benvenuta. Ma dall’altro non dobbiamo dimenticare che il velo è anche un simbolo forte dell’immaginario integralista: le donne kamikaze portano il velo nero ortodosso, gli estremisti di Isis lo impongono. È un simbolo che non vorrei fare mio». Le donne che promuovono il velo ne parlano però come di una decisione personale, un modo di stare meglio. «Per qualcuna lo è, ma in molti Paesi è un obbligo. Se non lo indossano vengono punite. È uno strumento di mortificazione per molte, anche se per altre è una scelta. Ci si sta bene? Allora chiediamo anche agli uomini, per un giorno, di metterselo. Ecco, la giornata mondiale del velo per me avrebbe senso se a indossarlo fossimo anche noi maschi».