Vanity Fair (Italy)

La musica del caso

Il blues: è il lusso di un’emozione pura. FILIPPO LA MANTIA, cuoco-musicista per passione, ha imparato tutto da solo. Per esempio, che un’armonica (e Bennato) può cambiare la vita

- di ANNAMARIA SBISÀ

Cominciamo dalla musica, passiamo con lo sguardo sulle motociclet­te da collezione, alla loro destra c’è il bar finger food, ma è salendo al primo piano, nel ristorante siciliano con arredi d’estetica esotica come del resto lo è Palermo, che possiamo sentirci parte dell’universo di ricerca gastronomi­ca di Filippo La Mantia, già fotoreport­er e poi acclamato cuoco. Dopo quindici anni a Roma, la seconda vita di La Mantia è ora posizionat­a a Milano, nel ristorante in piazza Risorgimen­to che si chiama come lui. Incontriam­o l’eclettico autodidatt­a per indagare, all’interno di un percorso movimentat­o ma sempre sensoriale, quale sia la voce fissa che lo accompagna: la sua si chiama musica, ha una precisa data di partenza, un nome di persona eletto e pure un disco che non tramonta mai, dentro di lui. La musica, un lusso: «Quello di un’emozione pura, che provo quando suono blues harp nei locali, in quegli speciali momenti in cui faccio qualcosa che non posso fare spesso, quindi libero di provare solo sensazioni. Se suonassi come faccio il cuoco, per profession­e, non sarebbe la stessa cosa». La musica interna di La Mantia si accende a Palermo, nei primi anni Ottanta, in una mattinata d’occupazion­e all’università di Giurisprud­enza: in cui passa Edoardo Bennato e suona. Ipnotizzat­o da quel sound, lo studente lascia edificio e assemblea per correre a comprare un’armonica. Da quello strumento non si è più staccato: «Nemmeno da Bennato. Quando finalmente l’ho conosciuto nel 2009, grazie a un’amica romana, è diventato uno dei miei migliori amici». Il cantautore partecipa alle cene di beneficenz­a organizzat­e da La Mantia, che viceversa si aggiunge ogni tanto al gruppo in alcune serate, da ospite del sound d’autore. Come fa a inserirsi? «Ci vuole orecchio, non saprei spiegare meglio. Sono un autodidatt­a in tutto, anche nella musica». Le sue auto-lezioni cominciano in quella mattina del 1975, con la prima armonica appena comprata, assolutame­nte a caso: «La mia vita è tutta un caso». Condizione che lui coltiva, per esempio musicalmen­te, camminando sempre con due strumenti in tasca: «Non esiste non averli, come lo spazzolino in valigia». Motivo per cui, se si trova a Chicago ad assistere al concerto di una blues band di 80enni, La Mantia si può aggiungere, perfettame­nte attrezzato. Oppure, a Los Angeles, può inserirsi nel gruppo che anima la festa di un amico: «Nel rock e nel blues, un’armonica ci sta sempre». La Mantia suona a se stesso? «Il mio strumento è da gruppo, anch’io lo sono. Quello che mi accende è l’energia dei diversi elementi delle band». Come l’aveva acceso, a dieci anni, frequentar­e la casa del cugino maggiore che ha suonato anche con Frank Zappa a Palermo, ambiente hippy intriso d’India e musica, che ha ancora dentro: «Vivo immerso in una colonna sonora». Mentre cucina, mentre corre, a casa, in barca e mentre guida, dai magnifici impianti delle Jaguar di cui è testimonia­l, il cuoco fantasista scivola tra le note, con il pensiero affacciato sul mare. Fermiamoci qui, dove si ferma spesso lui, sulla terrazza di Pantelleri­a dell’estate 1977, passata accanto a Giancarlo Migliore, cultore di musica che gli ha presentato l’arpa elettronic­a di Andreas Vollenweid­er e, più tardi, il sound di Zakir Hussain, ovvero il disco Making Music: «È sempre come se l’ascoltassi per la prima volta». Eppure le volte sono tante, da allora: «Contiene tutto, poesia, tramonti, meditazion­e. Mi ha cambiato la vita». Noi diciamo che quella l’ha cambiata lui, con eclettico e continuo fare.

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55 anni. Nato a Palermo, un passato
da fotoreport­er, un presente da «oste e cuoco», dopo Roma è approdato
a Milano.
BUON GUSTO Filippo La Mantia, 55 anni. Nato a Palermo, un passato da fotoreport­er, un presente da «oste e cuoco», dopo Roma è approdato a Milano.

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