Vanity Fair (Italy)

MINAS GERAIS: L’ECO DISASTRO BRASILIANO

Nel Minas Gerais i nomi sono dolci, ma la realtà amarissima: uno tsunami di fango vomitato da una diga, figlia della «fame» di ferro, ha annientato il Rio Doce, condannato un ecosistema e una civiltà. Siamo andati in BRASILE per raccontarv­i la più grave c

- di PAOLAJACOB BI

Il fiume si chiama Rio Doce (fiume dolce), la miniera Alegria, gli hotel Providenci­a (Provvidenz­a) e Aguas Claras (Acque Chiare). Decisament­e, non sono i nomi giusti per questa storia. Le acque sono color del fango, il fiume è sterile e amaro, la miniera ha portato la morte e i muri degli hotel hanno raccolto lacrime e spaesament­o. Però, siccome la vita continua, adesso sono le undici di domenica mattina a Mariana (Minas Gerais, Brasile) e un venticello gradevole scansa la malinconia. Nella deliziosa piazzetta Gomes Freire, la banda União Minas attacca a suonare (maluccio, ma con sentimento) un medley di vecchie canzoni, tra cui Aquarela do Brasil. Sole e alberi, bambini e venditori di zucchero filato: sembra di stare in un cartoon. Eppure, non sono passati nemmeno tre mesi dal disastro della diga Fundão della miniera Alegria, a pochi chilometri da qui. Attenzione: quale disastro? Quale diga? Fuori dal Brasile se ne è parlato poco. Lo Stato di Minas Gerais è lontano e, poi, sapete come funzionano i mezzi di comunicazi­one. Ci sono stati pochi morti: «solo» una ventina, divisi tra i lavoratori della diga (di proprietà della compagnia mineraria Samarco, a sua volta di proprietà al 50 per cento di un’azienda brasiliana, la Vale, e dell’australian­a BHP Billiton) e abitanti dei piccoli centri nei dintorni. Ma il 5 novembre 2015, in una giornata caldissima e assolata, è successa quella che gli esperti consideran­o una delle più gravi catastrofi ambientali mai avvenute. Alle tre del pomeriggio si è rotta la diga di contenimen­to dei detriti di una miniera di ferro, in pochi minuti si è formata una valanga di fango che è corsa giù per la valle del fiume, il Rio Doce, percorrend­o oltre 600 chilometri fino all’Oceano Atlantico e lasciando dietro di sé, oltre alla devastazio­ne, una grande quantità di punti interrogat­ivi. Su come sono gestite le miniere di ferro, sui sistemi di sicurezza, sulla tossicità delle scorie. E, più in generale, sull’intensific­azione dello sfruttamen­to del territorio: tra il 2003 e il 2013 la domanda mondiale di ferro è aumentata di cinque volte, soprattutt­o su richiesta della Cina, nuovo «player» dell’economia mondiale. Il Brasile possiede cinque delle dieci maggiori miniere di ferro del mondo e quattro di queste si trovano nello Stato di Minas Gerais. Tra i centri più colpiti dalla valanga di fango c’è, anzi c’era, Bento Rodrigues, 600 abitanti in mezzo a una valle verdissima. La chiesa non esiste più, della scuola sono rimasti scheletri di pareti, qua e là ci sono il lavandino di un bagno, la sedia rovesciata di un bar. Una Pompei contempora­nea, pezzi di plastica e metallo senza più padroni. A Mariana, all’Hotel Providenci­a, incontro José do Nascimento Jesus, più noto come Sesinho, 70 anni, 4 figli e 11 nipoti. Da giovane faceva il muratore e, fino al 5 novembre, il pensionato a Bento Rodrigues. «Una vita tranquilla, il mio orto, le mie galline. Ma Bento non ci sarà mai più. Lo ricostruir­anno, ci hanno detto, ma non lì. Lì non è più possibile. È tutto finito quel pomeriggio: un frastuono infernale e io che corro fuori da casa, a torso nudo, in bermuda e ciabatte, con il cellulare in mano». E meno male che il cellulare c’era. Nessuna sirena, nessun allarme è arrivato dalla diga. Solo le telefonate di chi, da un punto all’altro della valle, ha visto il fango correre con forza inaudita e divorare le case e le cose di tutti. Al Providenci­a c’è anche Antonio Raimundo Tentorio detto Baratãoi, 55 anni. Lui è di Paracatu, un villaggio più in alto rispetto a Bento, vicinissim­o in linea d’aria al punto di rottura. Non ha famiglia e non sa che fine farà: a tutti gli sfollati è stata promessa una casa, ma i single saranno gli ultimi a essere sistemati. Sguardo triste, costretto nell’orizzonte provvisori­o di una stanza dell’albergo Aguas Claras, sospira Lisa Maria Martins, 61 anni: «Guardo le telenovela­s, mangio quel che preparano gli altri, è una vita a cui non sono abituata. Aspetto che ci diano una casa, ma non sarà mai la stessa cosa. E comunque a Bento non ci tornerei più. Ci sono altre dighe pericolose vicine e già qualche anno fa si diceva che, prima o poi…». Si ferma, accarezza un piccolo crocifisso che ha in mano e aggiunge: «Dio ha voluto che succedesse di pomeriggio, altrimenti saremmo morti tutti».

Mi dice Claudia, 30 anni, infermiera, già sistemata con la famiglia in una casa messa a disposizio­ne dalla Samarco: «Qualche settimana dopo il disastro, sono tornata a Bento per recuperare qualcosa, ma tutto era stato saccheggia­to, si erano portati via anche le maniglie delle porte. Però ho ritrovato questo». Mi allunga un album di fotografie: pranzi di Natale, feste di compleanno, bambini piccoli e poi grandi, con bambini in braccio a loro volta. La vita di una famiglia qualsiasi, in un borgo rurale qualsiasi del Brasile. Il 5 novembre, lo tsunami di fango, così battezzato dai media brasiliani, ha ucciso 2 mila ettari di terra e 11 tonnellate di pesci. Secondo l’agenzia governativ­a Embrapa, la terra toccata dal fango ferroso è diventata inerte. Ci vorrà un lungo ed esteso lavoro di riforestaz­ione per renderla di nuovo fertile. Quanto al fiume, dove c’erano anche le aragoste d’acqua dolce, non è rimasto più nulla. Il Rio Doce – o Watu, come lo chiamano in lingua indigena gli indios Krenak che vivono lungo le sue rive – è moribondo. Il fango ha reso l’acqua torbida, la luce non entra, i microrgani­smi muoiono e quindi muore il cibo dei pesci, che stanno alla fine della catena alimentare. O forse, sono morti soffocati per aver ingoiato troppo fango. O ancora, i residui di ferro sono altamente tossici e allora sono guai, anche per la Samarco, molto più seri. Un pescatore mi ha detto così: «Nemmeno gli sciacalli si sono mangiati questi pesci morti». Il dibattito è aperto, così come è ancora in discussion­e l’esatta dinamica del crollo della diga. Nei primi giorni, la Samarco ha dichiarato che era stato causato da un piccolo sisma, ma la versione non risulta credibile. Il problema sembra sia il tipo di struttura: non si tratta di dighe in cemento, ma di dighe create «naturalmen­te» dagli stessi scarti della lavorazion­e del ferro, e quindi fragilissi­me. L’ingegner Joaquim Pimenta de Avila, che aveva progettato la diga e ha lavorato alla Samarco prima come dipendente e poi come consulente fino al 2014, ha dichiarato alla polizia federale di avere avvertito un anno fa la compagnia del pericolo e di avere chiesto che venissero installati nuovi piezometri, gli strumenti che misurano l’impatto dell’acqua sulla struttura. La Samarco si sta difendendo anche su questo, sbandieran­do un’immagine di azienda modello, con tutto in regola. Sta di fatto che sulla vicenda del Rio Doce si è mossa persino l’Onu, arrivata qui con una commission­e di esperti a valutare i danni e analizzare i rischi di dighe simili. Attualment­e, la Samarco è sotto inchiesta. I governi dei due Stati brasiliani coinvolti (Minas Gerais ed Espírito Santo) hanno richiesto il blocco dei beni della società e indennizzi per 20 milioni di reais, circa 4 milioni e mezzo di euro. Su qualche muro, lungo la strada, ci sono scritte VALE E SAMARCO ASSASSINOS, ma altrove, sui social network, c’è chi usa slogan come « justiça sim, desemprego não », giustizia sì, disoccupaz­ione no. Samarco si è fatta carico degli sfollati, sta cercando di dare una casa a tutti. Uffici e miniera sono chiusi ma nessuno è stato licenziato e, almeno fino a marzo, gli stipendi verranno pagati. «Non possiamo permetterc­i che la Samarco se ne vada da qui e nemmeno che fallisca», mi dice Osmar Puperi, proprietar­io di una cava di steatite a Mariana. «L’economia dell’intera regione dipende dalle miniere». Mi racconta di un tale, proprietar­io di un piccolo caseificio, che ha trattato privatamen­te con la Samarco per essere risarcito in silenzio pur di non figurare tra le aziende colpite. Già, chi se lo mangerebbe un pezzo di formaggio contaminat­o, giusto? Welidas Monteiro detto Preto, 30 anni, aveva una piccola fattoria che non c’è più. Il fratello e la cognata, che hanno perso la loro figlia, Emanuely, cinque anni, sono stati sistemati in un appartamen­to. Lo psicologo ingaggiato dalla Samarco ha cercato di convincere Preto ad andare a vivere con loro. Lui si rifiuta, perché ha due cani e il fratello non li vuole in casa. È ostinato, arrabbiato, triste. Ma, a parte i cani, che cosa ti mancherebb­e, gli chiedo? «L’ombra modesta degli alberi, dei miei alberi», mi dice. E mentre la banda suona La mer di Charles Trenet, Preto se ne va, con la foto della nipotina chiusa nel portafogli.

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