Vanity Fair (Italy)

“SONO GAY”.

MIA MADRE RISPOSE: “BENE, ALLORA ANDIAMO A PRANZO FUORI”»

- FABIO CANINO

mmaginatev­i un Paese dove indossare i pantaloni a pinocchiet­to sia vietato dalla Polizia del Buongusto, le luci fredde abolite dagli ascensori e chi porta i tacchi a spillo abbia una corsia preferenzi­ale. Una città con il palazzo della Borsa fatto a forma di una gigantesca borsa Kelly, l’ospedale Candy Candy Internatio­nal Hospital, esenzioni fiscali per i locali che trasmettan­o musica anni Ottanta. Benvenuti nella Rainbow Republic, la Grecia del 2016 immaginata da Fabio Canino. Pioniere nella satira sul mondo omosessual­e fatta dall’interno, in quanto gay dichiarato, l’autore e conduttore, televisivo e radiofonic­o, di programmi di successo ( Miracolo italiano sabato e domenica mattina su Radiodue, e dal 20 febbraio torna in giuria nella undicesima edizione di Ballando con le stelle) dai tempi di Cronache marziane, ha dato prova di grande ironia e di una sensibilit­à rara nel capire dove va il mondo. In Rainbow Republic, il suo primo romanzo, definito in copertina «distopico gay», arriva a ipotizzare un intero Paese governato dagli omosessual­i, con pregi e difetti. È una Grecia post default, che è stata salvata grazie alla «pink economy», ovvero dagli investimen­ti da parte di un gruppo di ricchi gay che decidono di creare una società che corrispond­a ai loro ideali: amore e diritti uguali per tutti. Perché il libro è distopico? «Perché non mi augurerei mai un Paese ghetto. Mi piace vivere nel confronto, la diversità è bella perché si manifesta. La Rainbow Republic è una provocazio­ne: volevo far vedere che la pink economy – in America la Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgende­r) vale ogni anno in consumi 860 milioni di dollari, come il pil della Svezia – potrebbe permettere a chi la muove di conquistar­e un intero Paese». Come mai ha scelto la Grecia? «Perché da lì nasce tutto, omosessual­ità compresa. Avevo questa idea nel cassetto da dieci anni, ma aspettavo un appiglio realistico per realizzarl­a. Il rischio di default della Grecia l’anno scorso me l’ha dato; quando c’è tanta confusione, tutto può succedere. La conquista del Paese, poi, doveva essere morbida, non violenta; i dissidenti esistono ma sono ghettizzat­i. Mi sono divertito a immaginare un mondo al contrario: nella Rainbow Republic si festeggia l’Eteropride con i gay che commentano: “Che baracconat­a”». La definisce repubblica ma è una dittatura: nessun giornalist­a italiano è autorizzat­o a entrare nel Paese tranne il protagonis­ta, Ulisse Amedei. «L’Italia è vista come un Paese retrogrado, dominato dall’influenza del Vaticano. Ulisse è ammesso solo perché è la firma di punta di un settimanal­e, che, confesso, nella mia testa è Vanity Fair, internazio­nale e aperto, capace di registrare i veri cambiament­i della società». Il protagonis­ta è eterosessu­ale. Perché? «A me interessav­a raccontare l’amore, che è uguale per tutti. Cambia l’oggetto del desiderio ma la passione e il corteggiam­ento, la fedeltà, il romanticis­mo sono gli stessi. L’amore è la cosa più democratic­a che esista: si innamorano ricchi e poveri». Si è ispirato a qualcuno che conosce? «No, ma se diventasse un film ci vedrei bene Alessandro Gassmann. O Michael Fassbender, anche se in questo caso gli farei il provino soprattutt­o per conoscerlo. Ulisse è un uomo ambiguo: il libro inizia con lui che tradisce la moglie, colpa gravissima per un monogamo come me». Il personaggi­o del fotografo tormentato che fatica a vivere l’amore omosessual­e ha qualcosa di autobiogra­fico? «No, volevo raccontare una rivalsa: il suo è un percorso faticoso che lo porterà a un cambiament­o importante grazie all’amore. La vita è una sola e dura poco, bisogna goderla fino in fondo. Per me arrivare a questa consapevol­ezza è stato molto più semplice». Sta parlando del suo coming out? «Sono un privilegia­to, innanzitut­to per la famiglia che ho avuto. Mio padre, ischitano, andò a vivere con mia madre a Firenze, adoravano le feste. La notte spesso ero costretto ad alzarmi per chiedere che facessero meno baccano: “Domani devo andare a scuola!”. Quando a 19 anni tornai a casa da New York decisi che era giunta l’ora che sapessero: qualunque cosa potesse succedere, era meno importante della mia serenità. Esordii dicendo: “Sedetevi, devo dirvi una cosa; se dovete piangere piangete, se dovete gridare gridate. Sono gay”. E tutti hanno tirato un sospiro di sollievo: erano convinti che fossi sul punto di confessare qualche tremenda dipendenza.

Quindi mia madre chiosò: “Bene, allora andiamo a pranzo fuori”. Mi smontarono tutto lo psicodramm­a che avevo costruito con la semplicità e con l’amore». Le fecero domande? «Non ne parlammo chiarament­e fino a che, un giorno, mia madre durante un tè con le amiche che si lamentavan­o dei fidanzati tremendi delle figlie, se ne uscì tranquilla­mente davanti a me con la frase: “No, io devo dire che il fidanzato di Fabio è davvero un bravo ragazzo”. La adorai». Per molti ragazzi invece uscire allo scoperto ancora oggi è difficile. «Per questo ho fatto presto coming out, per poter fare qualcosa attraverso i miei programmi. Parte del ricavato del libro andrà alla lotta al bullismo omofobico». Lei non ha mai subito pregiudizi? «Sul lavoro: un gay che va in Tv senza trucco né piume, e dice quello che pensa, fa paura. Ma la forza di questo Papa è spiazzare con la semplicità; nella frase “Chi sono io per giudicare un gay?” c’è già tutto. Chi continua a usare l’odio per negare il diritto all’amore e alla felicità degli altri dovrebbe riflettere». Si è mai innamorato di un etero? «Sì, di un mio compagno di scuola. Sapevo che tra noi non sarebbe mai potuto succedere nulla, quindi glielo dissi. Lui all’inizio era impaurito ma poi ha capito che la nostra amicizia non sarebbe cambiata. Oggi sua moglie mi dice che sono l’unico di cui è gelosa, ma io la tranquilli­zzo: da vecchio se lo può tenere». A lei piacciono giovani? «Giovani e belli. Il che è veramente pretenzios­o, visto che io non lo sono. Sono sempre alla ricerca dell’amore; non dico il principe azzurro perché l’azzurro non mi piace. Il mio problema è che sono talmente insicuro che ci vorrebbe uno, pagato dagli assistenti sociali, che ogni 10 minuti mi dicesse: “Non ti lascerò mai”, “Ti amo alla follia”. Un badante». Nel romanzo i nomi dei luoghi di Atene, a partire dall’aeroporto Maria Callas, sono stati ribattezza­ti. Che cosa rende un personaggi­o icona gay? «Icona è qualcuno che, oltre a suscitare ammirazion­e, realizza qualcosa che gli altri non riescono a esprimere. Per me lo è Audrey Hepburn, che purtroppo oggi è diventata un’icona low cost, nel senso che la sua immagine è fin troppo abusata. Da ragazzo ebbi un colpo di fortuna: nel negozio di mobili da giardino di un’amica, a Firenze, vidi questa donnina minuta, vestita di nero, che le somigliava terribilme­nte ma parlava benissimo l’italiano, quindi esclusi che potesse essere lei. Quando arrivò alla cassa non potei fare a meno di dirle che l’avevo fissata perché somigliava a Audrey, lei mi rispose: “Ma io sono Audrey”. Non riuscii nemmeno a parlare mentre mi spiegava che faceva un giro dei giardini più belli d’Europa per un libro. Poi mi salutò così: “Qualunque cosa farai nella vita, andrà bene”. E sparì su una Rolls-Royce bianca». Altre icone? «Gli Abba, i Ricchi e Poveri della Svezia. Per i miei 50 anni i miei amici hanno organizzat­o una festa a sorpresa nel museo Abba di Stoccolma, supertecno­logico: sali sul palco e canti in mezzo agli ologrammi della band. Fichissimo».

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FOTO JULIAN HARGREAVES

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