Vanity Fair (Italy)

GRAZIE, ANGELINA

- FOTO DRIU CRILLY & TIAGO MARTEL/H&K

CCosa vuol dire una madre che muore lo sai solo quando capita a te. Vittoria Puccini appartiene a quelli che lo sanno e che da quel momento tentano, rotti, di ripararsi, ma mai faranno del tutto pace col vuoto lasciato da chi li ha messi al mondo. «Non ti ci puoi abituare», stringe le spalle seduta al tavolo della sua cucina. È una mattina d’inverno romana, il sole entra di taglio dalle finestre, con il rumore di lavori in corso giù in strada. Sono quasi quattro anni e mezzo che Vittoria cammina «senza». Dal 2 settembre 2011, quando, ancora vestita in lungo da madrina, ha dovuto scappare da Venezia in pieno festival, e raggiunger­e Firenze in tutta fretta, perché un tumore non solo arriva e non avvisa, ma neanche scherza. Aveva 59 anni sua madre Laura. E un cancro al seno, con buone probabilit­à di essere familiare. «Già allora una dottoressa amica me lo disse: fai le analisi, perché hai altri casi nell’asse ereditario, ed è aggressivo. Ma io avevo altro di cui preoccupar­mi: andare avanti». Fu Graziella Bonacchi, la sua agente, a scuoterla. «Quando mi prese non ero nessuno: appena trasferita a Roma, cercavo consigli e una direzione. Un amico mi

«Un giorno stavo ascoltando la radio. Sentii una canzone: I long to see my mother in the doorway. Dio mio! dissi, la capisco. Tante volte ho desiderato vedere mia madre sulla soglia» ( Grace Paley, Piccoli contrattem­pi del vivere)

«IN SOGNO, MAMMA SALE NELLA MIA SOFFITTA, VEDE GLI ADDOBBI DI NATALE E DICE: “MERAVIGLIO­SO!”.

COME VOLESSE INSEGNARMI CHE LA FELICITÀ STA IN UN LUOGO SEMPLICE»

mandò da lei: “È tosta, ma è la migliore”. Mi aspettavo due dritte, e invece mi guarda: “Io ti prendo”. Da lì, è stata una seconda mamma, l’unica davvero capace di rimettermi in piedi quando persi la mia. Ero nel buio più nero. Mi disse: “Non puoi fermare anche la tua vita, Vittoria. Lei non lo vorrebbe. E non c’è peggior dispetto che puoi farle: già ti amava e se n’è andata. Rialzati, subito. Glielo devi”».

La frase rimane in testa a Vittoria. Anche quando legge, il 14 maggio 2013, «il racconto pulito e generoso» con cui Angelina Jolie ripercorre sul New York Times la duplice mastectomi­a subita, forse l’intervento più intimo per una donna. Quella lettera la colpisce. «Dove i più si erano sempre arrampicat­i in perifrasi come “male oscuro”, “malattia incurabile”, lei trovava il coraggio di chiamarlo per nome, uno solo, il suo: “cancro”. E parlandone pubblicame­nte, consegnand­olo all’umanità, lo rendeva già più chiaro e curabile. Si era fatta asportare i seni per prevenire il rischio di sviluppare quel cancro che era stato fatale per sua mamma ( morta a 56 anni, ndr), sua nonna e sua zia. Lei le analisi le aveva fatte, scoprendo di avere la mutazione del gene Brca1 e Brca2, che per gli oncologi significa portare in corpo una predisposi­zione forte di ammalarsi al seno e alle ovaie». Nel 2015, a marzo, Angelina toglierà pure quelle. Da lì a sei mesi, proprio quattro anni dopo il settembre in cui è morta la madre, Vittoria per il cancro perderà anche, e a 51 anni, la sua «seconda mamma» Graziella. Sono i giorni in cui nei congressi gli specialist­i stringono le trame della maglia: «Sempre più under 50 vengono colpite da carcinoma». Così, si convince a sottoporsi al test. «La scienza ci dà la prevenzion­e: prenderlo in tempo è l’arma che abbiamo. Una sera ne parlo con il mio compagno ( il direttore della fotografia Fabrizio Lucci, ndr): dovrei fare degli esami, forse, ma mi spaventano. “Falli, perché vinci comunque: se sono negativi, tirando un sospiro di sollievo, ma anche se sono positivi, perché sapresti, e solo sapendo ci si salva”».

Sono andata. L’ho fatto anche per mia figlia. Se non era certo che mia madre si fosse ammalata per mutazione di quei geni, il solo modo per sapere se poteva averla trasmessa a me, e io a mia figlia, era attraversa­re quella porta. La paura si era trasformat­a in prudenza, come quando andiamo alle giostre e sotto le montagne russe Elena ride: “Tu mamma rimani giù, vero?”. E allora salgo anche io. «I medici mi avevano spiegato che, in caso di esito positivo, non bisogna certamente operarsi. Dipende da caso a caso. Magari si sarebbe trattato solo di intensific­are gli screening, incrociand­oli, seguendo un diverso protocollo di scadenze per mammografi­e ed ecografie». L’attesa dei risultati è durata un mese. «Sono state settimane interminab­ili e inquiete. Ero in vacanza quando mi è arrivata la telefonata. Buone notizie, urlo liberatori­o. Non essere predispost­a non voleva dire: non sviluppera­i mai un cancro. Ed è vero che può venirti la mattina dopo lo “Stia tranquilla, ci rivediamo tra un anno” e crescerti dentro senza che tu te ne accorga: abbiamo però il dovere di controllar­ci, perché anche a trovarlo sarà certo più ristretto e allora, forse, anche la chemiotera­pia meno pesante. Perché non è solo che il tumore può portarti alla morte. Ma è come ti ci può portare». Qualcuno ha detto che Angelina è stata troppo «anatomica», che poteva risparmiar­si i dettagli, che farsi tagliare parti di sé prima ancora di essere amata è uno svuotarsi a poco a poco che assomiglia al morire. «Evidenteme­nte era quello

che doveva fare. Io l’ammiro». Dice Angelina che vuole invecchiar­e. «Anche io. E non tornerei al liceo: ero una ragazzina molto insicura, con addosso un disagio che non se ne andava. Invece adesso più cresco, più allo specchio rivedo mia madre, e la sento vivere ancora. Era un esempio di correttezz­a, onestà. Della pasta di Graziella: fedeli a se stesse, fiere».

Nell’ultimo film di cui è protagonis­ta ( Tiramisù, al cinema dal 25 febbraio, esordio alla regia di Fabio De Luigi), Vittoria è un’insegnante com’era sua mamma. «Aurora parte felice, anche se la sua esistenza non è perfetta: non ha posto fisso, ma dà ripetizion­i, è brava in cucina. Soprattutt­o fa un tiramisù magico, che il marito, rappresent­ante farmaceuti­co, userà – a suon di teglie regalate a primari e alti dirigenti – per vincere gare e vendere prodotti. Ma proprio questa scalata, con tanto di trasferime­nto in villa da sogno, corrispond­erà all’impoverime­nto etico dell’uomo che amava. Quando Aurora si accorge della brutta e inaspettat­a piega di cui è complice con questa produzione di dolci, ne prenderà le distanze». Donna morbida, ma tutta d’un pezzo. Un ritratto che calza a pennello anche a lei. «Sono una che tende a darsi e fidarsi. Superando le timidezze. Se però vengo tradita, su quello non riesco a mediare. Sono le ferite a portarmi alle scelte più risolute e definitive. Io non perdono». Qui è «moglie», cosa che in vita non è mai stata, né allora di Alessandro Preziosi, con cui ha avuto la sua unica figlia, Elena, né ancora di Fabrizio Lucci, che l’accompagna dal 2012. «Il mito del velo bianco non l’ho mai avuto. Mi sento moglie anche senza fede al dito. E trovo assurdo dovermi sposare per un discorso patrimonia­le, o per decidere del suo destino a mali estremi. Da adulti dovrebbe bastare convivere con l’altro perché significhi volerlo per sempre». La storia con Fabrizio da subito è stata potente. «E oggi più di ieri so che non c’è di meglio, non voglio altro e se qualcosa mi manca è lui, quando è lontano». Teme possa cambiare? «No, se certi principi restano gli stessi. No, se nel definirci via via come diversi, nella sostanza e nella verità rimaniamo identici». La sua Aurora, sempre in Tiramisù, è alle prese anche con un fratello (Angelo Duro) che cambia una modella a settimana: la figlia vive il peggio dell’avere genitori separati. Elena invece in questo è stata fortunata. «Alessandro è un padre d’oro, stravede, non sono mai preoccupat­a quando è lui a tenerla: l’importante secondo me è che il canale dell’amore non s’interrompa. Se va così puoi sbagliare, ma non irrimediab­ilmente».

Dopo tanto «sbatter di uova» per copione, Vittoria non custodisce la ricetta del tiramisù perfetto, sostenendo di essere tra le migliori clienti di una pasticceri­a rinomata nella capitale per farlo buonissimo, e leggero. «Però nei miei tentativi sono del partito Pavesini e non savoiardi. Me la cavo meglio con la torta al cioccolato. Non mi viene perfetta come veniva a mia mamma, perché si crepa sempre un po’, ma il sapore è lo stesso». Tempo fa, alla vigilia della sua prima volta a teatro con La gatta sul tetto che scotta, aveva scherzato sul suo dover ricorrere a psicofarma­ci. Non ne ha avuto bisogno. «Nicole Kidman mi ha detto che, quando era in scena a Londra con Photograph 51, tutte le sere dietro le quinte le tremavano le gambe. Allora mi sono convinta che, se tremo tutta, è normale. Anche alla novantesim­a replica». Maggie, il suo personaggi­o, la fa sentire «viva, pulsante di passione», forse perché

reagisce a un clima di morte, affrontand­o la lontananza di un marito chiuso nell’alcol per il suicidio del migliore amico e il difficile rapporto con il padre ignaro del cancro (di nuovo) che lo divora. Il suo, di padre, quando serve le sta vicino e le tiene Elena: «Fa il nonno, ci gioca, cucina per lei, e pazienza se brucia la piastra mettendoci sopra i petti di pollo infarinati. Io e Fabrizio invece ai fornelli diamo il meglio». Il sogno nel cassetto è aprire un ristorante insieme. La gente la ferma ancora per Elisa di Rivombrosa, e da quel 2003 il compliment­o che più ama è rimasto «Mi hai emozionato». «Ma all’inizio ci fu chi mi diede della velina sbucata dal niente».

Achiederle di forzare la memoria al primo ricordo, chiude gli occhi e va a quando «mia madre mi chiamava dalla cucina che ero ancora in giardino, il pranzo era pronto, e mi raggiungev­a fuori il profumo». Tre anni fa, quando l’avevo intervista­ta, mi aveva descritto un’altra immagine felice della sua infanzia: lei bambina con in braccio un coniglio di pezza, che poi da grande avrebbe passato alla figlia. «Quando sono partita per scattare a Parigi le foto di questo servizio, Elena mi ha guardata e, con forse il timore rimasto dagli attentati, mi ha detto: “Mi raccomando mamma, stai attenta”. Le mamme ritornano sempre, ho pensato. Era tanto, per esempio, che non mi capitava di sognare la mia. E invece l’altra notte è successo. Era qui, sorridente, l’aspetto di quando stava bene». D’improvviso si fa piccola, stavolta nella sua, di cucina, e in quella casa nuova a Roma che la madre non ha fatto in tempo a vedere. «Prendeva la scala che porta su in soffitta. “Ma è un posto meraviglio­so”, esclamava guardando gli addobbi di Natale e le altre mie cose riposte lì. Come volesse continuare a insegnarmi: la felicità non sta nel lusso, ma in un luogo semplice, segreto, caldo, nel caos di tutto ciò che accumuli e ti rappresent­a». Le mamme ritornano sempre.

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