Oggi come ieri: sulla famiglia QUANTE BUGIE
La signora era appoggiata al tavolo di formica della sua cucina, in un quartiere popolare di Milano. Doveva essere sulla cinquantina, ai miei occhi di ventenne appariva vecchia. Mi guardò e mi chiese: «Ma è vero che per colpa di questa maledetta legge mio marito mi lascerà?». Era la primavera del 1974. Campagna elettorale sul referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini che nel 1970 aveva introdotto il divorzio in Italia e che la destra politica quasi compatta e buona parte del mondo cattolico (schieramento identico a quello che, 42 anni dopo, avversa la legge Cirinnà) volevano cancellare. Allora si faceva politica porta a porta, esponendosi a qualche insulto ma incontrando de visu quella che poi si sarebbe chiamata «la pancia del Paese».
Se non dimenticherò mai quella signora è perché la sua domanda mi diede per la prima volta la bruciante sensazione del potere malefico della propaganda. Gli antidivorzisti accusavano la Fortuna-Baslini di «sfasciare la famiglia» e di «minare dalle fondamenta la nostra società». Amintore Fanfani, leader di quella campagna disperatamente reazionaria, in comizi memorabili per sbracataggine (e dire che era un insigne cattedratico) metteva in guardia le donne: «Votate contro quella legge, o vostro marito scapperà con una ragazzina». Forse faceva lo spiritoso. Forse sapeva su quali debolezze, quali solitudini, quali ignoranze poteva fare leva. Anche allora si trattava di legalizzare unioni civili già in atto, consentendo finalmente di sciogliere matrimoni già dissolti di fatto. Di legalizzare vite vere di persone vere. Di ammettere che forme di amore potessero morire e altre nascere. E di stabilire che la Repubblica, quando legifera, è tenuta a legiferare per tutti e non solamente per i cattolici convinti che il matrimonio sia un sacramento indissolubile: e liberi, ovviamente, di continuare a considerarlo tale ma solo in relazione alle loro scelte, non più a quelle degli altri.
Se rievoco quell’ormai antico scontro (che si concluse, evviva, con la sconfitta degli antidivorzisti) è perché, in una società pur così mutata, ritrovo nella disputa sulle unioni civili un identico, drammatico incidente culturale. I fautori della «famiglia tradizionale» sono contrari al riconoscimento legale di altre forme di convivenza e genitorialità. Ma i fautori di altre forme di convivenza e genitorialità NON sono affatto contrari alla «famiglia tradizionale». Nulla fanno per impedirne la costituzione e la tutela legale. Vogliono solo affiancare al «modo unico» altri modi già esistenti, già operanti, di amare e procreare, tutelando i partner e i figli, dando loro assistenza sanitaria e facoltà di ereditare. È un clamoroso falso, dunque, sostenere che i due schieramenti sono l’uno fautore della famiglia tradizionale, l’altro contrario. Che uno la vuole proteggere, l’altro distruggere. Lo scontro è tra chi vuole mantenere la legittimità di un solo tipo di famiglia, e chi vuole dare legittimità a diversi tipi. Lo scontro è tra un monopolio etico e un’etica plurale. Tra intolleranza e tolleranza.
Impressiona doversi riconfrontare, dopo un cammino (culturale, politico, scientifico) tanto lungo, con una forma di intolleranza così precisamente uguale a quella che scatenò la campagna contro il divorzio. Anche allora il tentativo fu di dividere la società in «amici» e «nemici» della famiglia. Ma la sola inimicizia in campo era quella contro le centinaia di migliaia di famiglie di divorziati, che chiedevano di avere riconoscimento legale e pari diritti (oggi ci sembra un’ovvietà). Non esisteva alcuna inimicizia attiva, sul fronte opposto: nessuno voleva dichiarare decaduto l’istituto del matrimonio, nessuno produceva anatemi contro i matrimoni di lunga durata. Oggi ci sono persone «contro»: sono gli oppositori della Cirinnà. E persone «a favore»: sono quelli che aspettano, magari da una vita, di sentirsi uguali agli altri, in un mondo di diversi che si riconoscono e si sopportano.