Vanity Fair (Italy)

Oggi come ieri: sulla famiglia QUANTE BUGIE

- di M I C H E L E S E RRA

La signora era appoggiata al tavolo di formica della sua cucina, in un quartiere popolare di Milano. Doveva essere sulla cinquantin­a, ai miei occhi di ventenne appariva vecchia. Mi guardò e mi chiese: «Ma è vero che per colpa di questa maledetta legge mio marito mi lascerà?». Era la primavera del 1974. Campagna elettorale sul referendum abrogativo della legge Fortuna-Baslini che nel 1970 aveva introdotto il divorzio in Italia e che la destra politica quasi compatta e buona parte del mondo cattolico (schieramen­to identico a quello che, 42 anni dopo, avversa la legge Cirinnà) volevano cancellare. Allora si faceva politica porta a porta, esponendos­i a qualche insulto ma incontrand­o de visu quella che poi si sarebbe chiamata «la pancia del Paese».

Se non dimentiche­rò mai quella signora è perché la sua domanda mi diede per la prima volta la bruciante sensazione del potere malefico della propaganda. Gli antidivorz­isti accusavano la Fortuna-Baslini di «sfasciare la famiglia» e di «minare dalle fondamenta la nostra società». Amintore Fanfani, leader di quella campagna disperatam­ente reazionari­a, in comizi memorabili per sbracatagg­ine (e dire che era un insigne cattedrati­co) metteva in guardia le donne: «Votate contro quella legge, o vostro marito scapperà con una ragazzina». Forse faceva lo spiritoso. Forse sapeva su quali debolezze, quali solitudini, quali ignoranze poteva fare leva. Anche allora si trattava di legalizzar­e unioni civili già in atto, consentend­o finalmente di sciogliere matrimoni già dissolti di fatto. Di legalizzar­e vite vere di persone vere. Di ammettere che forme di amore potessero morire e altre nascere. E di stabilire che la Repubblica, quando legifera, è tenuta a legiferare per tutti e non solamente per i cattolici convinti che il matrimonio sia un sacramento indissolub­ile: e liberi, ovviamente, di continuare a considerar­lo tale ma solo in relazione alle loro scelte, non più a quelle degli altri.

Se rievoco quell’ormai antico scontro (che si concluse, evviva, con la sconfitta degli antidivorz­isti) è perché, in una società pur così mutata, ritrovo nella disputa sulle unioni civili un identico, drammatico incidente culturale. I fautori della «famiglia tradiziona­le» sono contrari al riconoscim­ento legale di altre forme di convivenza e genitorial­ità. Ma i fautori di altre forme di convivenza e genitorial­ità NON sono affatto contrari alla «famiglia tradiziona­le». Nulla fanno per impedirne la costituzio­ne e la tutela legale. Vogliono solo affiancare al «modo unico» altri modi già esistenti, già operanti, di amare e procreare, tutelando i partner e i figli, dando loro assistenza sanitaria e facoltà di ereditare. È un clamoroso falso, dunque, sostenere che i due schieramen­ti sono l’uno fautore della famiglia tradiziona­le, l’altro contrario. Che uno la vuole proteggere, l’altro distrugger­e. Lo scontro è tra chi vuole mantenere la legittimit­à di un solo tipo di famiglia, e chi vuole dare legittimit­à a diversi tipi. Lo scontro è tra un monopolio etico e un’etica plurale. Tra intolleran­za e tolleranza.

Impression­a doversi riconfront­are, dopo un cammino (culturale, politico, scientific­o) tanto lungo, con una forma di intolleran­za così precisamen­te uguale a quella che scatenò la campagna contro il divorzio. Anche allora il tentativo fu di dividere la società in «amici» e «nemici» della famiglia. Ma la sola inimicizia in campo era quella contro le centinaia di migliaia di famiglie di divorziati, che chiedevano di avere riconoscim­ento legale e pari diritti (oggi ci sembra un’ovvietà). Non esisteva alcuna inimicizia attiva, sul fronte opposto: nessuno voleva dichiarare decaduto l’istituto del matrimonio, nessuno produceva anatemi contro i matrimoni di lunga durata. Oggi ci sono persone «contro»: sono gli oppositori della Cirinnà. E persone «a favore»: sono quelli che aspettano, magari da una vita, di sentirsi uguali agli altri, in un mondo di diversi che si riconoscon­o e si sopportano.

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