Mamma, divento donna
Nel film con cui potrebbe vincere il suo secondo Oscar, EDDIE REDMAYNE interpreta un pittore degli anni Venti, sposato, che non riesce a riconoscersi nel proprio corpo e vuole cambiare sesso. L’attore ha indossato abiti femminili, si è guardato allo specc
PER ALCUNI È PIÙ DIFFICILE»
«LA VITA È UNA BATTAGLIA PER DIVENTARE SE STESSI.
Eddie è bello e gentile, sposato e tranquillo, ha una buona stretta di mano e un sorriso delizioso. È educatissimo, del resto ha studiato a Eton, come il principe William. Ha vinto un Oscar l’anno scorso per La teoria del tutto, dove interpretava Stephen Hawking, ed è di nuovo candidato per The Danish Girl, dove veste abiti femminili, i bellissimi abiti d’epoca (di Paco Delgado, nominato all’Oscar anche lui) che vedete in queste pagine. Non è una commedia, non è una farsa en travesti, è una storia basata sulla vicenda di uno dei primi uomini che consegnò il suo corpo alla scienza, ai tempi ancora pionieristica, per cambiare sesso. A un certo punto, il film avrebbe dovuto essere interpretato da Nicole Kidman: vestita da uomo all’inizio e poi in abiti femminili. Sarebbe stato più facile ma meno aderente alla verità. Presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, The Danish Girl uscirà il 18 febbraio e racconta di Einar Wegener, pittore danese, e della moglie Gerda (Alicia Vikander, anche lei candidata). Lui ha successo come paesaggista, lei, ritrattista, molto meno. Finché non comincia a dipingere il marito in abiti femminili. Einar dunque diventa Lili, la misteriosa ragazza danese del titolo. Gerda sostiene la trasformazione di Einar in Lili fino alla fine, fino ad accompagnarlo alla clinica di Dresda dove il dottor Kurt Warnekros lo sottopone a diversi interventi chirurgici perché diventi Lili non solo nell’anima ma anche nel fisico. Benché romanzata, la storia raccontata dal film di Tom Hooper ( Il discorso del re) è sostanzialmente vera, anche se non è stato possibile ricostruire i dettagli del lavoro del dottor Warnekros perché nel 1933 i nazisti distrussero la clinica e tutti i documenti che conteneva. Il regista si concentra sull’amore tra marito e moglie, amore messo in discussione dalla crisi di identità di lui ma che, in qualche modo, sopravvive a tutto. Con superficiale eleganza, The Danish Girl ha il merito di far diventare la T finale della sigla Lgbt meno oscura, meno marginale, meno spaventosa di quanto non sia nella visione convenzionale. Che cosa sapeva del mondo transgender prima di interpretare questo film? «Poco. Ne vedevo gli aspetti colorati, carnevaleschi. Ma poi ho cominciato a leggere diversi libri e incontrare molti transgender per capire psicologicamente che cosa significa il disagio di essere nati in un corpo che non ti corrisponde. E, oltre al conflitto interiore, ognuno di loro deve combattere per il suo posto nella società. In 32 degli Stati Uniti ti possono licenziare, il tasso di suicidio nella comunità è del 41 per cento». Quindi, siamo ancora molto indietro quanto a comprensione e inclusione? «Già, eppure sono passati quasi cento anni dalla vicenda di Lili. Prima o poi qualcosa dovrà pur cambiare, no? Quello transgender è un movimento per i diritti civili e magari anche un film come il nostro può invitare alla tolleranza». A lei, personalmente, che effetto ha fatto indossare abiti femminili e comportarsi da donna? «A parte il fatto che mi sono visto allo specchio identico a mia madre? ( ride). No, non sono il tipo di attore che si immedesima nel personaggio e se lo porta appresso anche nella vita. Io rientro a casa dal set o dal palcoscenico e torno a essere me stesso. Anche se ogni tanto Hannah ( Bagshawe, la moglie di Redmayne, ndr) mi dice che qualche traccia di Lili affiora, e mi prende in giro». Insomma, ha scoperto il suo lato femminile. «Sì, anche se non sono più sicuro di che cosa significhi femminile e maschile. Basiamo molti dei nostri ragionamenti su regole antiquate: lo sport ai maschi, le bambole alle femmine... Ma è così davvero? La società non si evolve?». Nel mondo di artisti in cui vivevano Lili e Gerda, un mondo d’avanguardia, l’idea di un uomo vestito da donna viene compresa, almeno da alcune persone. «Si ricordi che siamo negli anni Venti. Durante la guerra, gli uomini erano stati via, le donne avevano cominciato a lavorare e a inserirsi nella società, la moda del periodo, non a caso, era molto androgina: donne con i pantaloni, i capelli corti... Le persone degli ambienti intellettuali e più avvantaggiati erano incuriosite da tutto ciò, non è un caso che il primo intervento di riassegnazione di sesso avvenga in quel periodo». Non ha avuto timore che questo personaggio potesse danneggiare la sua immagine, in qualche modo? «No, perché io vengo dal teatro e ho recitato Shakespeare vestendo abiti femminili più di una volta. Entrare nel mondo di Lili mi ha insegnato che genere e sessualità non sono la stessa cosa, il mio viaggio è stato più emotivo che fisico. In fondo, per ognuno di noi la vita è una battaglia per diventare se stessi, solo che per le persone come Lili la battaglia è più difficile». Un anno fa, agli Oscar, è stato pronunciato il suo nome. Che effetto le farebbe vincere di nuovo? «Non lo so. Il ricordo di quella serata è una specie di vortice. Mi sono reso conto di avere vinto solo alle quattro di mattina, in albergo, guardando l’alba sorgere su Los Angeles. Io, mia moglie e quella cosa d’oro».