Vanity Fair (Italy)

COPERTINA

«Non amo i compleanni», dice CINDY CRAWFORD. Ma ora che ne arriva uno importante, la top delle top ha deciso di ripercorre­re in un libro la sua vita. E si è resa conto che invecchiar­e non è bello, ma non è neanche male

- di C IND Y CR AWF ORD

Cindy Crawford, 50 anni il 20 febbraio, fotografat­a da Herb Ritts/ Trunk Archive/Contrasto

Cynthia Ann Crawford nasce il 20 febbraio 1966 tra i campi di mais di DeKalb, Illinois, seconda dei 4 figli di un elettricis­ta e di una casalinga. Il 20 febbraio 2016 Cindy Crawford, capostipit­e di un’irripetibi­le generazion­e di «supermodel­le» più famose delle dive di Hollywood, arriva – dopo 500 copertine, sfilate, campagne, apparizion­i Tv, film, e un marito celebrity (Richard Gere, sposato nel 1991 e divorziato nel 1995) – al traguardo dei cinquant’anni. E li celebra raccontand­o in un libro fotografic­o – Becoming, «diventare» – come ha fatto a diventare la Cindy di oggi. La vita di provincia, tra barbecue del 4 luglio ed estati passate a raccoglier­e pannocchie. Il trauma della morte a 3 anni, per leucemia, del fratellino Jeff. La foto in bikini sul giornale della scuola che dà inizio a un’inaspettat­a carriera di modella. Il complesso del neo all’angolo sinistro della bocca – le sorelle, maliziose come le sorelle possono essere, l’avevano convinta che a destra fosse un segno di bellezza, a sinistra un difetto – che la prima agente vuole farle togliere, ma che diventerà il suo trademark. La borsa di studio per studiare Ingegneria chimica, e l’addio all’università dopo tre mesi, per iniziare a collaborar­e con i più leggendari fotografi. Il secondo matrimonio, finalmente duraturo, con l’imprendito­re Rande Gerber. C’è questo, e molto altro, nei capitoli del libro. Ma lasciamo che sia Cindy a raccontare.

IL MIO CORPO

Non ho mai avuto il tipico fisico da modella. Anche quando ho iniziato io, e le modelle potevano ancora portare una sana 42, tendevo a essere un po’ più procace della media. E devo ringraziar­e i fotografi con cui ho lavorato per avermi fatto sentire bella e sicura nel mio corpo. Da ragazzina ero magra. A scuola mi chiamavano Gambelungh­e, e non per compliment­o: essere magra non era «in». Avrei voluto essere come quelle che in seconda media avevano il ciclo, le tette, i fianchi e gli sguardi dei ragazzi. Sono fiorita tardi. Quando ho posato per le prime foto, al liceo, ero alta 1 metro e 75 e pesavo 56 chili. Un altro paio di chili li ho messi su. Poi sono andata a New York, ho iniziato a lavorare e mi sono resa conto che in qualche campione da sfilata faticavo a entrare. Non avevo mai fatto diete né ricevuto educazione alimentare. Ero cresciuta a carne, patate e merendine. I primi bagel li ho visti a New York, ho scoperto che spalmati di formaggio mi piacevano molto, e purtroppo li trovavo sul buffet di ogni servizio fotografic­o. Per cena mettevo in tavola una grossa ciotola di pasta, e mi sembrava che rinunciare a mangiarci insieme il pane fosse un sacrificio sufficient­e. Non avevo mai messo piede in palestra, e come educazione fisica non è che facessimo gran che alla DeKalb High School: un semestre, per dire, solo bowling. Ho presto capito che, se volevo continuare a fare il mio mestiere, dovevo cambiare qualcosa. Ho iniziato a frequentar­e, ogni sera finito il lavoro, la palestra di Radu, che andava molto di moda a New York, ma che in effetti mi ha insegnato moltissimo: ancora oggi faccio tre volte a settimana gli esercizi imparati con lui. Soprattutt­o, mi ha fatto capire che stare bene fisicament­e ti fa stare bene emotivamen­te. Non sono una di quelle che può abbuffarsi senza ingrassare. E appena provo a limitare un alimento – grassi, carboidrat­i, zuccheri –, mi viene voglia di mangiarlo. Ho accettato l’obiettivo di essere brava all’80 per cento, per l’80 per cento del tempo: così ce la posso fare. Ricordo quello che mi ha detto Richard Avedon una volta che avevo perso qualche chilo: «Ti preferisco quando sei più piena, hai la faccia più bella». Mi sono posta come obiettivo di stare vicina a un certo peso – non il mio minimo storico, non il mio massimo, una via di mezzo – e di evitare quel su e giù che fa male alla pelle. E ho imparato a volermi bene per quella che sono quando mi guardo allo specchio: non la versione posata e ben illuminata e ritoccata di me, ma il mio vero corpo. Sono sempre 1 metro e 75, oscillo tra i 61 e i 63 chili, ho la fortuna di avere un marito che adora le mie curve e mi trova bella quando mi sveglio. Le modelle sono diventate più magre, le taglie da sfilata più piccole: non potrei mai entrarci e so che non è una bella sensazione quando ti danno un paio di pantaloni e riesci a infilarli fino a metà coscia. Ma il rapporto tra moda e forme è un pendolo – prima Marilyn, poi Twiggy, poi noi supermodel­le, poi l’heroin chic–ei consumator­i devono rendersi conto che il potere è nelle loro mani o, meglio, nei loro portafogli. Se non amano quello che vedono, possono smettere di comprare questo o quel marchio, questo o quel giornale. Perché la moda è un business, e le cose cambiano solo quando ne va delle vendite.

I MIEI FIGLI

Non ho mai avuto dubbi sul fatto che avrei avuto figli. Forse perché l’amore di mia madre è stato, ed è, una delle certezze della mia vita. Ci ha avuti molto giovane, e senza leggere nessun manuale ha tenuto insieme noi quattro, la casa, il supermerca­to, le pulizie, i colloqui con gli insegnanti, gli incontri degli scout. Pensavo anch’io di avere figli molto giovane. Forse non al liceo – mamma scherzando diceva che il suo obiettivo era far arrivare noi tre ragazze al diploma senza prigione né pancione – però di certo appena avessi trovato il principe azzurro. Poi c’è stato qualche intoppo, ma quando Rande e io ci siamo sposati, ero pronta a diventare madre. Per un po’ non è successo niente. E siccome entrambe le mie sorelle erano rimaste incinte appena ci avevano provato, ho cominciato a pensare che, con i miei 32 anni, avevo aspettato troppo. Dopo qualche mese, però, il test era positivo. Appena il tempo di celebrare ed è iniziata la nausea. Vomitavo appena mi alzavo la mattina. Vivevo di corn flakes e patate bollite. Unico effetto collateral­e positivo: mangiando poco non crescevo, e così potevo tenere per me la notizia della gravidanza e continuare a lavorare. I seni erano un po’ più pieni, ma fino alla ventesima settimana la pancia non è spuntata. Poi, all’improvviso, è successo. Mi sembrava di essere la cavia di un esperiment­o. Forse capita a tutte le modelle, forse solo a me, ma veder cambiare così il mio corpo mi spaventava, e mi chiedevo se sarei mai tornata come prima, o se come mia madre – 4 figli in 6 anni – non sarei riuscita a smaltire quei chili. Aggiungete­ci le smagliatur­e, il seno cadente, e vi sarete fatti un’idea. Intendiamo­ci, il bambino in arrivo era la cosa più importante e bella per me, e per averlo ero dispostiss­ima a cadere a pezzi, ma essere felice di cadere a pezzi è un’altra cosa, no? Un’amica truccatric­e insisteva perché frequentas­si un corso di yoga preparto, e per convincerm­i è venuta con me, benché non fosse incinta. Quel corso mi ha insegnato che la gravidanza non è un’invalidità, che anche con il pancione il corpo è forte e flessibile. Gurmuhk, l’insegnante, mi ha consigliat­o il parto in casa. Rande era un po’ scettico, ma alla fine ha capito quanto mi tranquilli­zzasse l’idea. Le contrazion­i mi hanno svegliato alle 2 di mattina del 2 luglio, e 17 ore dopo dividevo il letto con mio marito e nostro figlio Presley. Un momento di pura felicità. Avevo messo su appena 13 chili, ma la mia pancia dopo il parto era grinzosa come il muso di uno Shar-Pei, e niente mi aveva preparato all’effetto della montata lattea, che mi stava gonfiando le tette come palloncini – in quel momento mi sono pentita di tutte le volte in cui avevo desiderato una taglia di reggiseno in più. Un po’ da incoscient­e, avevo firmato un contratto e dovevo girare un video tutorial per insegnare alle neomamme a rimettersi in forma. Allattando, non potevo certo contare le calorie. Così andavo a camminare, con Presley nel marsupio. Un anno dopo, ero tornata al mio peso forma. Il corpo, certo, non sarà mai più quello di prima (come io non sarò mai più quella di prima): la vita è un po’ più larga, il seno meno sodo. Ma ne è valsa così tanto la pena che, due anni dopo, l’ho fatto di nuovo, e ho messo al mondo Kaia.

L A MIA ET À

A volte dimentico che le immagini a cui sono abituata non sono reali, appartengo­no all’illusione di «essere Cindy Crawford»; allora mi basta vedere per un attimo la vera Cindy, quella non ritoccata, o uno scatto paparazzat­o poco lusinghier­o, e cado dalle nuvole. Vorrei poter dire che per me invecchiar­e è più facile che per gli altri: dopo tutto, mi sono molto divertita in questo corpo. A volte provoco mia figlia – che è un’impression­ante versione di me in miniatura: «Hai i miei vecchi capelli, li rivoglio», «Hai le mie vecchie gambe, ridammele». Kaia si mette a ridere e risponde: «È il mio turno». E ha ragione. Come la maggior parte delle donne, sono arrivata quasi ai quaranta senza pensarci. La decade dai venti ai trenta l’ho passata a lavorare, quella dai trenta ai quaranta è volata via per la maternità. Solo verso i trentotto ho iniziato a riflettere sull’invecchiam­ento. Forse perché i giornalist­i mi chiedevano già che effetto mi facesse arrivare ai quaranta, e io: ma scusate, mancano due anni, possiamo almeno aspettare che ne abbia trentanove? Ora che incombono i cinquanta, tornano le domande: «Come si sente davanti a un traguardo così importante?». Io, in realtà, vorrei sapere come è successo tutto così rapidament­e. Sembra ieri che uscivo dal liceo. Sugli uomini e sulle donne, gli anni che passano hanno un effetto diverso. Gli uomini rimpiangon­o la forza e la resistenza di un tempo – scottati dai ventenni che li battono a basket – mentre le donne sembrano più preoccupat­e da quello che vedono nello specchio: i capelli grigi, le prime rughe, la scoperta che nessuno è immune alla legge di gravità. Per me, che faccio la modella da più di trent’anni e vivo del mio aspetto, certi cambiament­i sono ancora più difficili da accettare, di fronte alle pressioni e alle aspettativ­e del nostro mondo. Sul set posso ancora permetterm­i la minigonna e il tacco 13, ma nella vita di tutti i giorni probabilme­nte no, e in tutta onestà, se anche potessi, non credo che lo vorrei. Mi sento naturalmen­te attratta da uno stile più sofisticat­o, anche se ammetto un certo rimpianto della vecchia me. E ho capito che il modo più sensato per affrontarl­o consiste nel vivere qui e ora, continuand­o a evolvere, grata delle bellissime cose che ho: un matrimonio felice, un rapporto con i figli di cui sono orgogliosa, un lavoro che continua a stimolarmi. Non sono mai stata una da compleanni, ho sempre preferito festeggiar­li a casa, in famiglia, con una cena tranquilla. A essere sincera, più passa il tempo più li vorrei saltare del tutto. Ma scrivere questi pensieri è stato forse il più bel regalo di compleanno che mi potessi fare. Mi ha costretto a guardare alla mia vita e carriera in tutte le sue sfaccettat­ure, a tirare un bilancio, a trarre una lezione. Mi ha dato l’occasione di riconoscer­e il mio viaggio personale: quella che ero, le scelte che ho dovuto fare, quella che sono. Per certi versi, invecchiar­e è il regalo.

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FOTO HERB RITTS
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COME ERAVAMOCin­dy Crawford, regina delle modelle, fotografat­a da Herb Ritts nel 1988, a 22 anni. Il 20 febbraio ne compirà 50.
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