Vanity Fair (Italy)

Un viaggio che non dimentiche­rete: IL GIARDINO DI PIA

- di DA RI A B I G NA RD I

Vent’anni fa lessi un romanzo che si intitolava Diario di Lo, e feci di tutto per conoscere l’autrice. Ero ammirata dalla raffinatez­za della sua scrittura, ma soprattutt­o ero curiosa di conoscere la persona alla quale era potuto venire in mente di raccontare la storia della Lolita di Nabokov dal punto di vista della ragazzina. Le telefonai, ci incontramm­o. Non gliel’ho mai detto che mi faceva soggezione: perché aveva solo qualche anno più di me ma era straordina­riamente colta, traduceva i classici russi e scriveva in modo meraviglio­so. Rimanemmo in contatto. Un giorno mi disse che aveva deciso di lasciare Milano e trasferirs­i in campagna, vicino a Lucca, per occuparsi di un podere abbandonat­o. Allora non era di moda come adesso, e lei era una giovane scrittrice della quale si parlava come di una rivelazion­e. La scelta mi lasciò perplessa. Continuai a seguire il suo lavoro, che ruotava sempre più attorno al suo giardino, al suo orto e al suo rapporto con la natura, molto tempo prima che questi temi venissero riscoperti e rilanciati. Lessi altri suoi libri, molto belli, come L’orto di un perdigiorn­o, e pensai che il suo destino evidenteme­nte era nel suo nome.

Pochi mesi fa ho ricevuto dall’editore Ponte alle Grazie le bozze del suo ultimo libro, che mi ha emozionato profondame­nte, per due motivi: primo, perché è bello da togliere il fiato; secondo, perché mi ha rivelato che Pia Pera da qualche anno soffre di una seria malattia degenerati­va, senza speranze di guarigione. Il libro si intitola Al giardino ancora non l’ho detto (pagg. 224, € 15) come la poesia di Emily Dickinson che allude al momento in cui il giardinier­e non potrà più occuparsi del suo giardino, perché morirà.

Ricordando la riservatez­za dell’autrice, immagino che scrivere questa storia le sia costato parecchio, ma che abbia dovuto farlo così come un cespuglio di rose non può fare a meno di fiorire. Siamo obbligati a usare i nostri talenti, anche quando non vorremmo, e Pia, nel suo modo profondo e intelligen­te, ha narrato il rapporto con la sua odiosa malattia senza fingimenti o consolazio­ni, ma non senza ironia e leggerezza. Il suo giardino è sempre protagonis­ta – coi fiori che a poco a poco lei non può più curare, e la terra che non può più lavorare, ma insieme ai quali continua a respirare e a vivere. «È cresciuta l’empatia. La consapevol­ezza che, non diversamen­te da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi. Non sono più un osservator­e esterno. Mi trovo io stessa in balia. Questo ispira un sentimento di fratellanz­a col giardino. Altrettant­o indifesa, altrettant­o mortale. Quasi fossi io il giardino».

Raramente ho letto una storia autobiogra­fica che tratti della vita, della malattia e della morte con tanta eleganza e onestà insieme. Come la natura con la quale Pia Pera è entrata in comunione profonda, dove c’è ogni sentimento e ogni colore, ma c’è soprattutt­o una bellezza infinita.

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