Vanity Fair (Italy)

«CON I MIEI FIGLI ABBIAMO SEMPRE PARLATO DI TUTTO, ANCHE DELLA “PRIMA VOLTA”.

LÌ HO VACILLATO, MA NON L’HO DATO A VEDERE»

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Confesso di aver vacillato, ma ovviamente non potevo darlo a vedere: rischiavo che non mi avrebbe raccontato più niente. Dicono che mantenere la calma sia una delle mie principali qualità». Come quando Tanzi le venne a dire del buco gigantesco di Parmalat? «All’inizio non potevo credere che si trattasse di una cosa così enorme, e gli dissi che avrebbe dovuto vendere un ramo dell’azienda per coprire le perdite. Lui replicò: “Non ha capito; non so quanto sia grande il buco, ma penso sia maggiore del valore di tutto il gruppo”. Gli risposi: “Se non va immediatam­ente in tribunale ci andiamo noi”. Fu una lezione per tutti, banche comprese: avremmo dovuto fare di più per scoperchia­re quella pentolacci­a prima». Descrive suo padre, un imprendito­re comasco del ramo alberghier­o, come un uomo di ideali fortissimi, che le ha trasmesso la cultura del lavoro e un grande senso del dovere. «Spero di aver preso da lui il coraggio di non tradire mai i propri ideali: preferì farsi anni di campo di concentram­ento piuttosto che venire meno al giuramento fatto al proprio Paese. Per le carezze invece ho Giovanna: sicurament­e devo a lei il fatto di aver scoperto, tardi, un po’ di sana leggerezza; mi ha insegnato a godere dei piaceri della vita. Sono grato ai miei genitori perché avere i piedi per terra mi ha permesso di non montarmi la testa quando ho avuto il potere: ho visto troppa gente a cui è successo, e altrettant­a dannarsi quando poi l’ha perduto. Ma l’insegnamen­to più prezioso di mio padre è stato quello di mandarmi a vedere che cosa c’è oltre al mare, in America, a studiare». Non era un gran studente, però. «Quanti due ho preso in greco... Al ginnasio, nonostante le ripetizion­i e il fatto che sgobbassi sui libri, i risultati brillanti non arrivavano, ma tutto cambiò per fortuna al liceo. Ancora oggi mantengo dentro di me un sano senso di inadeguate­zza, che mi fa pensare che gli altri siano più bravi di me, e che mi stimola a dare il meglio. Sogno una scuola italiana diversa, che aiuti a individuar­e i propri talenti, che insegni che non ci sono lavori di serie A e di serie B, soprattutt­o che non stigmatizz­i gli errori, perché è normale che si sbagli, basti considerar­e che la metà delle iniziative imprendito­riali può andare male: non aiutiamo i nostri figli a trovare lavoro se non gli insegniamo che si può sbagliare e rialzarsi, ma invece gli indichiamo solo sbocchi profession­ali tradiziona­li». Di lei si potrebbe dire che ha lasciato vari posti di lavoro senza garanzie, prendendos­i sempre rischi. Oppure, che le persone della sua specie cadono sempre in piedi. «Ho sempre chiuso le mie avventure profession­ali senza buonuscita e senza avere piani B: se parti pensando a un paracadute, significa che non sei concentrat­o a fare bene quello che stai facendo. Ho lasciato una posizione invidiabil­e come quella al vertice di Banca Intesa senza ricevere un euro, e per fare il ministro un solo anno: tutti mi hanno detto che ero pazzo». Si è pentito di essere entrato nel governo tecnico? «Mi pento di essermi fidato di Monti, sul piano umano e profession­ale: oltre ai tagli, avrebbe dovuto fare molto di più per lo sviluppo del Paese. Con il prestigio di cui godeva all’epoca sarebbe stato possibile. Se oggi continuo a insistere con la politica è anche per fare le cose che avrei voluto fare allora e per le quali non ho avuto il suo appoggio». Perché ha deciso di candidarsi come sindaco di Milano? «È la mia città, quella che mi ha dato tutte le opportunit­à e mi ha permesso di realizzare tutte le cose importanti della mia vita. Qui vive la mia famiglia. E poi è una realtà che consente di pensare in grande perché ha enormi potenziali­tà, e merita un’autonomia da città stato: domani potrà mostrare la strada all’Italia. L’amministra­zione Pisapia non ha fatto abbastanza, soprattutt­o nasconde sotto il tappeto emergenze come il lavoro e la sicurezza, che invece oggi sono la priorità dei cittadini». Per questo sta facendo una campagna elettorale così aggressiva nei confronti della sinistra? O pensa di poter diventare il candidato della destra? «Volevo dare un forte senso di discontinu­ità rispetto all’amministra­zione precedente: c’è bisogno di un cambio di marcia. La politica ti costringe ad alzare la voce, a essere meno composto, meno equidistan­te, come quando mi sono imbavaglia­to davanti a Montecitor­io contro l’Italicum, una riforma che solo oggi tutti sono d’accordo nel ritenere scellerata. È uno sforzo che costa prima di tutto a me stesso, ma credo sia necessario. Italia Unica non ha dietro alcun partito, però si pone come alternativ­a liberaldem­ocratica rispetto al Pd di Renzi, dove obiettivi di competitiv­ità – libertà d’impresa prima di tutto – siano combinati con quelli di coesione sociale: politiche per la famiglia, assistenza per i più deboli, integrazio­ne». Renzi proprio non le piace. Perché? «All’inizio mi sono illuso anch’io che potesse portare un cambiament­o, ma si è rivelato solo la faccia giovane della vecchia politica: non ha visione di dove va il mondo, né il coraggio di affrontare i veri problemi del Paese. In politica economica la sua ricetta è quella degli ultimi vent’anni: maggior indebitame­nto pubblico e zero crescita degli investimen­ti. In Italia c’è bisogno di ben altro».

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