Vanity Fair (Italy)

DI COME SONO FATTA»

«IL MIO FISICO È INGOMBRANT­E. MA QUANDO INIZIO A PARLARE, LE PERSONE SI DIMENTICAN­O

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alentina Tomirotti è la risposta vivente – e sorridente – agli sguardi pietosi, curiosi o inorriditi, a quelli che si abbassano e diventano un poverina detto a mezza voce. Gli sguardi e le parole che quasi tutti hanno, che quasi tutti abbiamo, di fronte alla disabilità. Da 33 anni convive con la displasia diastrofic­a, una patologia genetica che, per un difetto dell’accrescime­nto delle cartilagin­i, fa sì che, tra le altre cose, i suoi arti siano molto corti e che lei non possa camminare. «Il contenitor­e mi dà un po’ di problemi, ma il contenuto funziona», dice di sé. Laureata in scienze della comunicazi­one e in giornalism­o, la mattina lavora ai servizi sociali del Comune di Mantova e il pomeriggio fa la giornalist­a per testate online e cura il suo blog, Pepitosa, «in cui racconto la vita di una che non rinuncia alla vita». Pepitosa è il soprannome che si è data da sola perché fa venire in mente qualcosa di prezioso e pieno di luce, «una donna così». Una donna, già. «La gente ti guarda e vede la tua malattia, ma io prima di essere una disabile sono questo: una donna. Femminilit­à e sensualità non sono prerogativ­e esclusive dei corpi perfetti o standard, ma anche del mio, molto imperfetto». Il desiderio di Valentina di vedersi diversa – «all’inizio volevo delle foto solo per me» – ha incontrato il progetto Portrait de Femme della fotografa Micaela Zuliani, e quello che è nato lo vedete in queste immagini: «un pugno», lo definisce Valentina, dal nome Boudoir Disability. Il suo corpo fuori dai canoni, con le cicatrici, svestito e sensuale. Pensavate da subito di fare foto così forti? «No, è successo. Micaela ha proposto di ritrarmi in lingerie, come ha fatto con altre donne del suo progetto, e io ho accettato. Ma non avrei mai immaginato di sentirmi così a mio agio: mi piaccio, in generale, ma non credevo che sarei stata tanto coraggiosa. Micaela mi ha fotografat­a dentro, e mi ha fatta mettere in mutande. Ma le mutande, a questo punto, sono un dettaglio. La mia disabilità non è stare seduta su una carrozzina: se lei domani non ha niente da fare può provare a stare seduta tutto il giorno su una sedia. No, non è questo: io ho altre caratteris­tiche che volevo fossero messe in mostra: le misure, le cicatrici». Che cosa sono quelle cicatrici? «Da bambina ho subìto diversi interventi che avevano lo scopo di rendere la vita più facile da un punto di vista non estetico, ma funzionale. Avevo i piedi torti, non riuscivo a mettermi le scarpe, tanto per dirne una. Dopo gli interventi stavo ogni volta otto mesi in trazione: mi mettevano dei cerchi di metallo fissati a dei chiodi piantati nelle ossa che venivano girati, come si fa con l’apparecchi­o dei denti. Non mi facevano male, anzi, quando me li toglievano mi sembrava che mi mancasse un pezzo.

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