Vanity Fair (Italy)

F A BI O S IND I C I

Dopo i roghi di Calais e la catastrofe al confine greco, si cercano soluzioni per i rifugiati. Ecco che cosa propone lo scrittore BEN RAWLENCE, che ha vissuto a Dadaab, la «città di spine»

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Un campo di rifugiati è come un limbo. Si sta sospesi. Tra l’urgenza di andare via e la paura di perdere l’unico ricovero sicuro che si conosce. Che qualcuno finisce per considerar­e una casa». Le parole di Ben Rawlence, scrittore inglese ed ex ricercator­e per Human Rights Watch, evocano, come un riflesso condiziona­to, una recente immagine fotografic­a: il ragazzino afghano che riprende con il suo smartphone una baracca che brucia nella «Giungla» di Calais; tra le fiamme, un grande cartello con un cuore disegnato e una scritta: lieu de vie, luogo di vita. Mentre i reparti antisommos­sa della polizia francese sorveglian­o i bulldozer che smantellan­o il campo - intasata stazione di sosta per i migranti diretti in Inghilterr­a - migliaia di altri profughi sono incastrati tra la barriera di filo spinato del confine macedone e la tendopoli di Idomeni, in Grecia. «Una cintura di campi ai confini dell’Europa, finanziati dalla stessa Ue, non è una soluzione», dice Rawlence. «Il Canada sta accogliend­o migliaia di profughi nelle sue regioni meno popolate. Si potrebbe fare lo stesso nell’Europa dell’Est, dove ci sono aree a bassa densità abitativa». Lo scrittore inglese ha un’esperienza lunga e diretta al riguardo. Una buona parte degli ultimi cinque anni li ha passati a Dadaab, nel Nord del Kenya, al confine con la Somalia. Con una popolazion­e stabile di circa 500 mila persone, divise in cinque campi, è il più grande complesso per rifugiati e migranti del mondo. Un possibile modello per altre mega- strutture del prossimo futuro. Come la «città per rifugiati» di 4.500 chilometri quadrati che il presidente turco Erdogan vorrebbe costruire nel Nord della Siria. A Dadaab e ai suoi abitanti Rawlence ha dedicato un libro, City of Thorns, «città di spine» (Portobello Books). Non si tratta di una metafora: a parte gli edifici costruiti dall’Onu, tutto è fatto del legno spinoso di acacia, che abbonda nel deserto intorno ai campi. Chi vive a Dadaab? «La maggior parte sono somali, con piccole percentual­i di sudanesi ed etiopi. Alcuni hanno creato piccole fortune con commerci ai margini della legalità. I più vivono con gli aiuti alimentari. Che continuano a diminuire per i tagli dei fondi. L’abbassamen­to degli standard sanitari provoca epidemie, come l’ultima di colera». Chi stabilisce le regole nei campi? «Il campo è gestito da Unhcr, l’Alto commissari­ato delle Nazioni Unite per i rifugiati. La polizia kenyota dovrebbe garantire la sicurezza. In realtà, la ricerca di fantomatic­i terroristi islamici infiltrati spesso si trasforma in raid punitivi e violenze indiscrimi­nate. I migranti hanno eletto dei consigli che hanno funzioni consultive». Il campo è un fallimento? «Senza dubbio: nato per soccorrere i dannati dell’infinita crisi somala che alterna guerre a carestie, Dadaab ha quasi un quarto di secolo. Un campo dovrebbe avere una scadenza. Come città, invece, è un singolare successo. È la terza del Kenya per dimensioni. Ha attività produttive e distributi­ve, l’economia più importante del Kenya del Nord». Il Kenya continua a minacciare la chiusura. Lo farà mai? «È improbabil­e: anche se non vuole accogliere mezzo milione di profughi come cittadini, sulla sua economia sommersa prospera una vasta rete di corruzione all’interno dell’amministra­zione kenyota».

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