E DI UNA FIGLIA UN FIGLIO»
Ottanta e fu un diluvio di stravaganze. «Il primo fu un iraniano. C’era ancora Khomeini al potere. Arrivò con 3 mila dollari arrotolati dentro un condom, nascosto nel retto». Seguirono europei, australiani e americani. «Pensi che una madre americana aveva tre figli maschi: li ho operati tutti. In un’altra famiglia, ho fatto di un figlio una figlia e di una figlia un figlio. Così tante storie strane». Nel 90% dei casi, la correzione passa attraverso la castrazione, con buona pace di Freud e dell’invidia del pene di moltitudini di bambine in guerra con se stesse. «Al primo posto ci sono oggi i cinesi», dice il dottor Preecha. «Immagini che in Cina c’è mezzo milione di trans in attesa di operazione!». Da buon buddhista, il dottor Preecha non capisce chi non capisce, proprio non ce la fa. «Chiunque di noi, morendo, potrebbe rinascere come loro».
La trans foggiana Sonia dopo l’intervento. A Pescara, dove vive,
fa la parrucchiera. A Bangkok è arrivata accompagnata dalla
sua famiglia. È un pensiero diffuso, nel Sudest asiatico. In Birmania e nel Nord della Thailandia, si pensa che i transessuali abbiano un brutto karma, che nella vita precedente abbiano commesso peccati contro le donne. Nell’antica cultura di Siam, essi avevano un ruolo privilegiato: quello di medium tra gli spiriti e il mondo terreno. Danzavano alle cerimonie del tempio ed era riconosciuto loro uno status superiore, di custodi, in un corpo solo, del maschile e del femminile. Della ricomposizione dell’alterità in un’unica forma. Della conciliazione degli opposti, dello yin e dello yang. «Personalmente penso sia un tragico errore la scelta chirurgica dei trans», dice l’antropologo Narupon Duangwises. «Dovrebbe essere consentito loro di essere maschi effeminati. Invece ha vinto la cultura occidentale che impone loro una scelta. È una perdita per l’umanità ed è una vittoria del marketing e dell’industria della bellezza che li vuole castrati e con un corpo perfetto». Ho pensato alle parole del professor Narupon entrando in uno dei centri più sofisticati di Bangkok, la Clinica Kamol. La clinica effettua 340 interventi all’anno ed è nota per una certa scaltrezza nella promozione in alcuni mercati. Sponsorizza ogni anno in Brasile e in Australia concorsi di Miss Trans, in palio l’operazione di cambio del sesso, gratis. «Ma è optional», mi dice il capo del marketing, Danai Tanamee. «Volendo possono farsi una liposuzione o anche il botox a vita». È stato alla Clinica Kamol che ho conosciuto uno struggente personaggio, una fragile principessa del Dagestan. Più che una donna, Agnes Landau era un miraggio. Ancheggiava, discinta, su trampoli rosa, brandendo un orsacchiotto. Diceva di essere musulmana convertita al cattolicesimo; fuggita minorenne a Vilnius, in Lituania; modella con una piccola agenzia di Milano. Odiava il padre e anche lo specchio che rifletteva il suo «coso». Era sola e riemergendo dall’anestesia aveva chiamato la madre: «Mi ha detto: a casa non tornare mai più». Tutto questo me lo diceva in varie interviste, poiché dal nostro arrivo, in clinica, aveva fatto in modo di essere al mio fianco, in diverse mise, con diversi trucchi, con l’orso e gli occhioni spalancati. Se si potesse misurare la solitudine, la sua farebbe il giro del pianeta, ho pensato. Un giorno l’ho trovata distesa su una sdraio nera, tra le gambe un vibratore chiaro. Ce ne erano sei, allineati su un piano, di diverse dimensioni. «Sto facendo le dilatazioni», annunciava trionfale. Le dilatazioni facevano parte della routine quotidiana, ne faceva due al giorno, un’ora per volta. «Io sono al numero 2», spiegava. «Il numero 2 è di 14 centimetri. All’inizio ero a dieci, lentamente guadagni in profondità, ma fa male. Non posso mica rischiare che si richiuda. Dovrò farlo per sempre». Mi osservava in silenzio, una bambina con un orsacchiotto in mano. Aveva 22 anni. Aveva fatto l’amore per la prima volta a 14 con un uomo molto più grande, incontrato su Internet. Aveva camminato per le vie della sua città, inseguita da un insulto: frocio! E ora era lì, a migliaia di chilometri da casa, a dirmi: casa? Che casa? Casa è la mia valigia, casa sono io, è il mio problema, voglio una famiglia, non l’ho mai avuta. Ora era lì, a ricordarmi i traumi che fanno di noi le persone che siamo. Le vessazioni per il nostro colore, per la nostra religione, per le nostre inclinazioni sessuali, che non dimentichiamo. Le ferite che diventano armature, maschere, identità. Puoi nasconderle, ma non eluderle; trameranno nell’ombra in attesa della rivincita. Era lì, dentro un cubicolo di Bangkok, a guardarmi come un cucciolo smarrito. «Vuoi vederla?», chiedeva a un tratto, triste e sfrontata. «Ogni vagina è unica». Sollevava il telo. «C’è tutto», diceva. C’è tutto, confermavo. C’era anche un bottoncino di carne rossa, infiammata: la clitoride sorta dalle cellule del glande. «Sono una donna», sussurrava, «sono una principessa», diceva e la voce s’incrinava e il volto si rigava di lacrime.