Donald Drumpf • il nostro fondo
Con un romanzo esplosivo sulle violenze a Los Angeles del 1992, RYAN GATTIS parla (anche) dell’America di oggi
on Giorni di fuoco, l’americano Ryan Gattis, 37 anni, ha scritto un romanzo d’esordio folgorante, in cui l’autore – nonché membro di un gruppo di artisti di Los Angeles – rievoca i sei giorni in cui, subito dopo l’assoluzione dei quattro poliziotti responsabili del pestaggio del tassista nero Rodney King, la città venne messa a fuoco. Tra il 29 aprile e il 4 maggio 1992, le gang devastarono interi quartieri, dandosi a saccheggi e regolamenti di conti. Solo l’intervento dei militari pose fine alle rivolte, ma il numero crescente di afroamericani disarmati uccisi fino a oggi dalla polizia unito alla campagna elettorale di Donald Trump non fanno presagire nulla di buono. «Donald Drumpf, lo chiamiamo così ( come il nonno di origine tedesca, ndr), ha trovato un modo diretto per parlare alla parte peggiore della psiche americana: la nostra spaventosa chiusura mentale, a cui si associano ignoranza e arroganza. Tutto ciò è assai rischioso, ma a volte bisogna toccare il fondo per potersi rialzare». Per anni ci hanno detto che il multiculturalismo era la sola chance. Oggi assistiamo a migrazioni bibliche causate da guerre e attacchi terroristici. Il multiculturalismo ha fallito? «Quando non si riesce a comunicare, il conflitto è inevitabile. È facile dimenticarlo, ma anche rivolte come quelle del ’92 sono state un modo per dire qualcosa: comunicavano rabbia, frustrazione e disperazione di fronte a quella che venne percepita come una palese ingiustizia da parte dello Stato. Se quei giorni hanno lasciato un’eredità positiva, sta nel fatto che le varie comunità di L.A. hanno imparato a confrontarsi. Non sempre vanno d’accordo, ma almeno si ascoltano». Nel libro non ci sono solo violenza e vendetta, ma anche tenerezza e dubbi da parte dei protagonisti. «Nel ’92 avevo 13 anni e stavo coi miei a Colorado Springs. Le rivolte le vidi in Tv. Ma nel 2008, quando mi sono trasferito a L.A., un immigrato in una città di immigrati, ho scoperto che proprio perché arrivavo da fuori chi aveva partecipato alle rivolte voleva spiegarmi come erano andate davvero le cose. Ho passato molto tempo a Lynwood con gente che aveva vissuto quei giorni, e volevo farne un ritratto vero, onesto, lontano dagli stereotipi».