Vanity Fair (Italy)

L’ALCOL E IL BURQA

Una donna su cinque subisce una violenza sessuale negli anni del college. E la «colpa», scrive JON KRAKAUER (quello di Into the Wild), non è la sua. Perché succede anche in Afghanista­n. E perché è successo alla ragazza con cui uscivi, da ragazzo

- di SILVIA NUCINI

La cosa più odiosa che si possa dire del dolore di qualcuno è che assomiglia a quello di molti altri: ogni ferita ha la sua forma e i suoi coaguli, e fa male a modo suo. Ma leggendo Senza consenso, l’ultimo libro-inchiesta di Jon Krakauer, 61 anni, viene da pensare che certi tipi di stupri, forse i peggiori perché compiuti da persone che si conoscono, seguano un tristissim­o copione che si ripete meccanico: una festa, troppo alcol, un no che non si riesce ad accettare, lui sopra, lei zitta, a volte svenuta. Quasi una donna americana su cinque, dicono le ultime statistich­e, subisce una violenza di tipo sessuale nel corso della vita, con molta probabilit­à ciò le accade tra i 16 e i 24 anni. Ma sono dati incerti, se incrociati con un’altra percentual­e: l’80 per cento delle vittime non denuncia il fatto. «E il risultato è che siamo immersi in un fenomeno enorme, di cui abbiamo pochissima consapevol­ezza», dice l’autore di Aria sottile e Nelle terre estreme (da cui venne tratto il lm Into the Wild) dal suo telefono di Denver, che non accetta chiamate da numeri non in chiaro.

Ha scritto un libro su un tema molto lontano dalle storie che ha raccontato nora.

«È vero, ma qualche anno fa è successa una cosa che mi ha toccato molto. Una giovane amica mia e di mia moglie, una regista di successo che conosciamo n da quando era bambina, è stata ricoverata per una grave dipendenza dalla droga. Io non immaginavo che avesse dei problemi, né da dove venisse il suo malessere, e un giorno ci ha raccontato di essere stata stuprata da un compagno di scuola quando era una ragazzina e poi di nuovo, qualche anno dopo, da un amico di famiglia. Per cercare di aiutarla, e per capire,

ho iniziato a fare ricerche sugli stupri. E ho scoperto un mondo: io stesso mi sono vergognato di non saperne niente e di avere a mia volta sottovalut­ato la questione quando, a 19 anni, una ragazza con cui uscivo mi raccontò di essere stata violentata. Il numero delle vittime è incredibil­e; ogni volta che presento il libro, alla ne, in tante mi avvicinano per dire: è successo anche a me».

Il suo libro, in inglese, si intitola Missoula, come la città del Montana su cui ha concentrat­o le sue ricerche. Perché ha scelto questo posto dove, tra l’altro, la percentual­e degli stupri è lievemente inferiore alla media nazionale?

«Mi sono imbattuto in un articolo del Missoulian, il giornale locale, su un caso di violenza sessuale, e sono andato ad assistere al processo. Sono rimasto così colpito dal coraggio di Allison Hu- – la vittima, che resisteva agli attacchi dei legali di Beau Donaldson, l’amico d’infanzia che l’aveva stuprata – da pensare: devo scrivere un libro su questa donna. E poi, a quella storia, se ne sono agganciate altre avvenute nel campus dell’Università del Montana. Sono contento di aver scritto di questa città perché è un posto come tanti. Volevo raccontare cosa succede a una normale ragazza americana che vive in una normale città americana quando viene stuprata e poi chiede sia fatta giustizia».

E cosa succede?

«Per prima cosa, il sistema giudiziari­o americano non è incline ad arrestare gli stupratori, che partono sempre con un grande vantaggio sulle vittime. Solo il tre per cento di loro finisce in carcere in questo Paese, tutti gli altri rimangono a piede libero. Se consideria­mo il fatto che studi attendibil­i ci dicono che chi ha stuprato una volta tende a ripetere mediamente almeno altre cinque volte questo reato, non c’è da stare allegri. Questo alto tasso di impunità si spiega con il fatto che lo stupro è forse l’unico reato in cui la vittima deve convincere gli inquirenti della sua buona fede. È vero, ci sono donne che mentono, ma è una percentual­e veramente minima, che comunque non giusti ca il numero così basso di incriminaz­ioni: un grande deterrente per le donne a denunciare. La seconda cosa che ho scoperto è che quel trauma si supera molto molto difficilme­nte».

Che conseguenz­e si porta dietro?

«Per il mio libro Where Men Win Glory ho parlato con molti reduci dell’Afghanista­n che soffrivano di post traumatic stress disorder. Le donne stuprate hanno la stessa sindrome. Moltissime di loro, anche dopo molti anni, sono autolesion­iste, hanno problemi con l’alcol e le droghe».

E per gli stupratori ci sono contraccol­pi psicologic­i?

«Nel mio Paese c’è un problema culturale: il sesso viene vissuto e praticato dai maschi come fosse uno sport, una prova muscolare. Molti stupratori non pensano nemmeno di esserlo: ammettono candidamen­te di far ubriacare le loro prede, di fare sesso con loro anche se sono prive di sensi, e anche se cercano di opporsi al rapporto. Tuttavia non consideran­o ciò una violenza sessuale».

Quasi tutti gli stupratori di cui parla nel libro sono piccoli eroi locali, membri della squadra di football dei Grizzly, orgoglio cittadino.

«Sì, e questo è un ulteriore problema con cui le vittime hanno dovuto fare i conti: il pregiudizi­o positivo di cui godevano i loro assalitori. Anche per questo il libro è stato parecchio osteggiato a Missoula. Non da tutti: in tanti mi hanno ringraziat­o. Mi ha fatto piacere, anche se non scrivo per essere apprezzato, ma per dire la verità. Per questo sono ossessivo sul controllo delle fonti: non c’è nulla che io scriva che non possa essere dimostrato».

Rolling Stone nel 2014 pubblicò una storia di stupro, avvenuta all’interno della University of Virginia, che si rivelò una bufala.

«Sì, la ragazza intervista­ta si era inventata tutto. La giornalist­a e il direttore hanno fatto un grave danno non solo al giornale ma anche al dibattito: da allora chi non vuole riconoscer­e la tragedia degli stupri nei campus cita quel pezzo per dimostrare che le donne mentono».

Quasi tutte le violenze di cui parla nel libro avvengono durante serate ad alto tasso alcolico. Ma sembra aver volutament­e lasciato la questione sullo sfondo. Perché?

«Descrivo tutto: non c’è modo di leggere questo libro e non capire che l’alcol è un problema. Ma non ho voluto concentrar­mi sul fatto che le vittime avessero bevuto perché sarebbe stato come dire: è colpa loro, non dovevano bere. Le donne non vengono violentate perché hanno bevuto o preso droghe, le donne vengono violentate perché qualcuno le violenta. È un punto fondamenta­le: ci sono studi che spiegano che, se per assurdo non ci fosse più alcol in circolazio­ne, il numero di donne stuprate sarebbe lo stesso. Le vittime sarebbero diverse, e il modo per annientarl­e un altro, ma il numero non cambierebb­e. Porre l’accento sul fatto che le vittime fossero ubriache vuol dire dare a loro un pezzo della colpa. Che non hanno».

È come dire: se ti metti una minigonna, allora sei disponibil­e.

«Esatto. Se una donna si veste sexy magari non vuole fare sesso, o magari lo vuole fare, ma non con te. Cosa e quanto una donna beve e come si veste non fanno di lei una preda. In Afghanista­n le donne indossano il burqa e sono stuprate lo stesso. Lo stupro è un problema ovunque, a prescinder­e dall’abbigliame­nto e dai comportame­nti delle vittime».

Esiste un modo per arginare il problema?

«Le donne non devono aver paura di denunciare, e non devono averla perché devono trovare persone disposte ad ascoltarle e a credere alla loro buona fede. E gli stupratori vanno puniti. Se solo quest’ultima cosa avvenisse davvero saremmo già a metà dell’opera e forse un uomo riflettere­bbe sulle conseguenz­e che può avere non ascoltare una donna che dice no».

SE NON CI FOSSE PIÙ ALCOL IN CIRCOLAZIO­NE, IL NUMERO DELLE VITTIME SAREBBE LO STESSO. CAMBIEREBB­E SOLO IL MODO DI ANNIENTARL­E»

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