Quando non ero felice
Lo chiamavano «The Abs», «gli addominali», e aveva una carriera da super modello. Poi, una frase «Sei un grande, sei uno dei nostri» gli ha cambiato la vita. Ora MICHELE GRAGLIA preferisce correre a meno 40 tra lupi, bufali e alci. O a 57 gradi nella Vall
Michele Graglia è preciso, intelligente, modesto. Ha una bella testa, però prima era facile non notarla. A New York, a una festa di attori, fotogra e modelle, venne presentato a Madonna come «the Abs», gli addominali. Si era scolpito un corpo come il David di Michelangelo, forse un po’ meglio. Due settimane dopo essere sbarcato a Miami per espandere l’azienda di famiglia, un acquazzone l’aveva forzato a rifugiarsi in un ca è della città. L’aveva avvicinato una signora. Era la capa di un’agenzia di modelli. Lui rma il contratto su due piedi. Entro poco tempo fa la pubblicità per Armani e Valentino. Va alla grande, è l’italiano esotico, sempre in spiaggia o in palestra, abbronzato, tiratissimo. I soldi arrivano, si sposta in Rolls-Royce, lavora con i migliori fotogra , incontra i ricchi e i famosi sugli yacht o all’ombra di una palma al bordo piscina. Quando esce (quasi tutte le sere) va a fare la bella vita. Tutte le porte gli si aprono. Per un ragazzo di 25 anni capitato per caso nella carriera del modello, si sente come si sentirebbe chiunque. «Un leone!». l momento della svolta arriva una sera che è fuori con un gruppo di amici e uno gli fa: «Michele, sei un grande, sei uno dei nostri!». È lì che improvvisamente si rende conto che no, lui non è così per niente. Non gli va di ritrovarsi ancora fra vent’anni a ballare sui tavoli. Si trasferisce da Miami al suo appartamento di New York e lì, aspettando la sua futura moglie in una libreria, gli capita di sfogliare il libro di un certo Dean Karnazes, Ultramarathon Man. Lo legge. Arrivato in fondo lo rilegge. E poi lo rilegge una terza volta. Ogni volta si entusiasma di più. Nella s da «ultra» intravede la possibilità di fare un passo verso un’avventura ancora più grande. Con straordinario spirito di abnegazione, in cinque mesi passa dall’essere un non- corridore alla sua prima gara di 100 miglia. Cioè 160 chilometri. Cioè quasi quattro maratone, una dopo l’altra. Ma al chilometro 135… «Sono svenuto e ho picchiato per terra. Mi sono svegliato con le mani di mio padre in bocca che mi tirava fuori la lingua perché stavo so ocando. Mia mamma e la mia ragazza piangevano. Ci ho messo quasi un mese per rimettermi a camminare». Peccato, perché era al primo posto. Capisce comunque che ha talento per questo sport. E, ancora più importante: che con la giusta preparazione, conoscenza e dedizione puoi raggiungere qualsiasi risultato. Nulla è impossibile. E questo, quando lo capisci, è a ascinante.
IProva per un po’ a tenere un piede in tutte e due le scarpe. «Solo che più assomigliavo a un atleta, meno lavoravo come modello». Da 90 chili di muscoli si riduce a 65 chili di potenza magra. Le braccia, i pettorali e anche i suoi famosi «abs» per un corridore di lunghe distanze sono solo ingombranti. Allora deve scegliere quale strada prendere. Non ha dubbi.
Dopo una certa distanza tutti so rono. Puoi essere allenato quanto vuoi, anche per i più bravi del mondo non c’è scampo. Il fattore «ultra» per Michele incomincia dopo i 120 km. È lì che il corpo si ferma. Tutto fa male, ti fanno male le gambe, ti fa male dentro, ti fa male la testa, arrivi quasi al collasso. La battaglia non è nemmeno più sica, è psicologica. «È lì che, se riesci a trovare la forza di riprendere lo spunto, poi vivi picchi esagerati. A volte è come se uscissi dal tuo corpo e ti vedi da fuori. Ti senti quasi un eroe». Nel 2014 si spinge ancora più in là e partecipa all’incredibile 300 km della UltraMilano-Sanremo. Questa volta vince. Secondo alla Angeles Crest. Primo al Grand to Grand Ultra in Arizona, con record del percorso. Nel 2015 primo alla Cro Trail, dalle Alpi italiane al mare francese. Vince quasi ogni gara a cui partecipa. E all’inizio di quest’anno fa un nuovo record a San Diego. Anche se, in verità, questa è per lui solo un allenamento per l’impressionante s da che lo aspetta due settimane dopo. Altro che Leonardo DiCaprio in Revenant: la Yukon Arctic Ultra è la corsa più fredda e più dura del mondo. Si svolge nel Nord del Canada, giusto sotto il Circolo Polare, nel mese di febbraio, nel cuore dell’inverno, quando le notti sono tre volte più lunghe dei giorni e le temperature possono sprofondare oltre i meno 40. Nelle edizioni passate alcuni atleti hanno perso le dita per congelamento. «L’ho scelta perché era la più dura e volevo misurarmi sulla più estrema», dice Michele. «Se lo faccio, lo faccio a pieno». Il mese scorso si è presentato a Whitehorse, un paesino che un tempo faceva da base per le vittime della febbre dell’oro. Corpo liforme, barba e capelli lunghi, nessuno gli fa molto caso.
Prima di essere ammessi alla partenza, tutti i partecipanti devono passare un corso di autosu cienza. E poi, oltre a correre, è obbligatorio trainarti dietro una slitta con tenda, sacco a pelo e kit per fare un fuoco nella neve. Ne va della tua sopravvivenza. In verità assomiglia più a una
spedizione estrema che a una gara. Su 160 km ci saranno solo due punti ristoro. Se ti senti male, puoi schiacciare un bottone Sos, ma i soccorsi in motoslitta possono impiegare ore ad arrivare. È nevicato il giorno prima, per cui il terreno è morbido e dif cile. Il percorso parte da Whitehorse e poi va per una cinquantina di chilometri sul ume Yukon ghiacciato. Poi, uno storico sentiero per cani da slitta si addentra in una immensa foresta di abeti. Impronte di bufali, di alci. Arriva la notte. La temperatura crolla. «Ma è il pezzo più bello. Sei immerso in questo ambiente, vedi tutto attraverso la torcia frontale e sai che ci sono cinque o sei ore prima del prossimo checkpoint. Nelle altre gare, ogni chilometro vedi gente, una strada. Qui no. Improvvisamente davanti a me passano due lupi. Il terzo si ferma e mi punta con i suoi occhi gialli». Per fortuna ha ancora la presenza mentale di alzare le braccia, battere i guanti, fare rumore. I lupi scompaiono nel buio. Ha dolori allo stomaco, ai polmoni, alla gola, solo a respirare quell’aria tagliente. A volte, per riprendere ato, rallenta. Ma nella sua testa disciplinata conta 15, 16, 17, 18… non può permettersi di camminare per più di 20 secondi. Poi deve ripartire, correre, se no si congela. In questo momento quasi tutti gli altri atleti si stanno montando la tenda per rifugiarsi e riposare un attimo. È già quasi tutto un giorno e una notte che sono in marcia senza dormire. Ma Michele non lo sa, e va avanti. Poi, poco prima dell’alba, vede una cosa ancora più straordinaria. Sopra l’orizzonte di un lago ghiacciato si muovono strane luci verdi. È come una aba. L’aurora boreale! Ma è di cile godersela. Questo è il momento più freddo. Il ghiaccio ha penetrato tutti e cinque i suoi strati di difesa, due maglie termiche, tre giacche. E non ha niente da bere perché l’acqua nel termos si è congelata. «Le ultime due ore non ci vedevo più, mi si era gelata la patina sopra gli occhi. Vedevo come sott’acqua». Quando nalmente, dopo quasi 22 ore senza sosta, giunge a una casetta che è l’arrivo, sembra stranamente deserta. Poi sente le urla di gioia di suo padre, venuto dall’Italia. Michele non parla. Entra dentro e si chiude in bagno. La prima cosa che vuol vedere sono i suoi piedi. Si s la i calzini. Sette dita hanno i geloni, ma forse si riprenderanno. Sta lì solo, in silenzio. Dolore e silenzio. Si butta l’acqua calda in faccia, sulla barba gelata. E si mette a piangere.
Incontro Michele in California pochi giorni dopo il suo ritorno dallo Yukon. «Com’è andata la s da?». «Bene, diciamo». «Dai, bene come? Come sei arrivato?». «Primo», dice, quasi come se si vergognasse. Non se lo aspettavano così presto. È arrivato alcune ore prima di quello che si è piazzato secondo. Solo un altro essere umano era riuscito a completare quel percorso in meno di 24 ore, senza fermarsi. «Ma quello che mi entusiasma non è vincere. Le competizioni a me piacciono, ma non piacciono. Sono un modo per rientrare in natura nel modo più primordiale. Sei te e i tuoi piedi. Ti senti un animale. L’ultra rappresenta questo per me: la ricerca di una s da che sembra impossibile, l’avventura».
La storia non finisce qui. Michele ha portato una bottiglia di spumante perché ha qualcos’altro da celebrare. Oggi fa uno strappo alla regola, beve mezzo bicchierino e si concede un piatto di pastasciutta invece che la solita quinoa, la banana e le sei mandorle. Perché dopo la vittoria artica gli è giunta la notizia che si è guadagnato un posto alla Badwater Ultra. Con 217 km attraverso la Death Valley, la Valle della Morte, il posto più caldo del pianeta, dove le temperature possono s orare i 57°C, è una delle s de più iconiche dello sport. La gara per eccellenza. L’appuntamento è per il 18 giugno, quando il sole cuoce il deserto californiano. Se riesce a portare a termine anche questa, in sei mesi avrà fatto la corsa più gelida e la più bollente del mondo. Ora che la super cie della Terra è stata tutta esplorata, che le vette più alte sono state conquistate, che tutti i continenti e le isole sperdute sono stati mappati su Google, c’è una generazione fresca di atleti ed esploratori che si inventa s - de nuove. Corrono più lontani di qualsiasi essere umano abbia mai fatto, attraversano l’Oceano Paci co in barchette a remi, toccano le ossa della Terra arrampicandosi su per le pendici più terribili delle montagne, o mollano una carriera di successo e night club per spingersi ai propri più estremi limiti, quando potrebbero starsene comodi a fare la bella vita. «S dare se stessi per me è senza prezzo», dice Michele. «Ormai le grandi scoperte sono personali. Sono interiori».