Vanity Fair (Italy)

NOI SAREMO CHARLIE, SEMPRE

Sopravviss­ute alla strage nel settimanal­e parigino, COCO e MARIKA arrivano in Italia per raccontare il loro orgoglio. E difendere la libertà «di pensare, di ridere, di vivere»

- Di F R ANC E S C A BUS SI

Come state?». La domanda può suonare banale, ma è la prima da fare a Marika Bret e Coco, rispettiva­mente redattrice e disegnatri­ce del settimanal­e satirico Charlie Hebdo, sopravviss­ute all’attentato compiuto da un commando jihadista il 7 gennaio 2015 nella sede parigina del loro giornale: dodici colleghi morti, un AK- 47 puntato alla testa di Coco per costringer­la ad aprire la porta della redazione. È passato un anno, e le cose, lentamente, sono migliorate: «Facciamo uscire Charlie ogni settimana, e ne siamo felici. Non è sparito in un attacco terroristi­co, ma va avanti con la più grande libertà». Che è quella di fare satira anche a costo di scioccare, come nel caso della prima pagina dell’ultimo numero: l’hanno dedicata agli attentati di Bruxelles del 22 marzo scorso, e raffigura il cantante belga Stromae che si chiede dove sia suo padre (dal titolo della sua hit, Papaoutai), circondato da brandelli di cadavere. Una satira nera che in Belgio ha generato non poche polemiche, come quasi sempre succede per Charlie Hebdo. La linea del giornale, però, non cambierà. «Mi dispiace che la gente si fermi all’apparenza, che non ci sia una lettura più intelligen­te delle nostre vignette. La satira mescola critica e humour, e appartiene alla nostra cultura», dice Coco. Per raccontarl­a, lei e la collega aprono il 9 aprile al Museo del Fumetto di Cosenza ( museofumet­to.it) una mostra dedicata alle più belle copertine di Charlie. «Veniamo in Italia per far conoscere un giornale che difende la laicità e il potere di critica, che non ha paura di dare fastidio», spiega Marika. C’è una cosa, mi dicono, che in questo ultimo anno le ha disturbate in particolar modo: «Le persone che ci dicono che ce la siamo cercata, che non dovevamo provocare. Sono frasi terribili, difficili da sopportare, perché mettono sullo stesso piano vittime e assassini. Tutto questo non è successo perché abbiamo disegnato Maometto, è stato solo l’inizio di qualcos’altro, di una guerra ideologica che coinvolge tutto il mondo». Chiedo loro se abbiano mai pensato di lasciare la redazione. La risposta è unisona: «Assolutame­nte no». Un po’ perché Charlie Hebdo è casa loro, la redazione che hanno ricreato come «una squadra in cui ci si preoccupa gli uni degli altri», e un po’ perché, dice Coco, «disegnare mi ha aiutato, buttarmi nel lavoro e non rivivere lo choc, il trauma, le immagini di quello che ho visto». Ma c’è anche un altro motivo, del quale vanno molto fiere, un concetto che continua a tornare nelle loro parole: è la voglia di difendere la libertà. «Di pensare, di vestirsi come si vuole, di ridere. Molto sempliceme­nte, di vivere».

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