Il trauma di Frankenstein
In un nuovo film, torna lo scienziato più discusso e rivoluzionario: JAMES McAVOY ci spiega che dietro all’ossessione di creare vita c’è qualcosa di personale
ames McAvoy mi aspetta in una suite del Soho hotel di Londra. La porta è chiusa, faccio per aprirla ma dall’altro lato della stanza lui mi anticipa di scatto e in un istante me lo trovo davanti al naso. « Guid mornin’! », dice rompendo l’imbarazzo, che poi, nel vocabolario scozzese-italiano, significa buongiorno. Con la sua statura modesta e il volto da eterno ragazzino, nell’Olimpo degli attori più richiesti del momento, James McAvoy, 36 anni, è un sex symbol atipico. La versatilità è la sua dote principe: lo ha dimostrato dai ruoli drammatici in L’ultimo re di Scozia ed Espiazione a quello del giovane professor Charles Xavier nella saga di X-Men, passando attraverso l’acclamata rappresentazione teatrale del Macbeth di Shakespeare. Dal 7 aprile è al cinema come protagonista di Victor Frankenstein, diretto dallo scozzese Paul McGuigan, con Daniel Radcliffe nei panni del suo aiutante Igor. «Non parla solo di mostri, è anche una riflessione sugli uomini e sull’amicizia», garantisce l’attore. «E rispetto ad altri Frankenstein, ha anche un copione più divertente e ritmi da film d’azione: l’idea mi ha subito eccitato». Come ci si prepara per un ruolo già così visto e conosciuto? «A differenza di altre versioni e del libro di Mary Shelley, la sceneggiatura forniva una motivazione dietro la sua ossessione di creare vita: il trauma di un grande lutto. Così mi sono concentrato su casi analoghi: spesso è gente che rifiuta del tutto l’idea della perdita». Come si pone di fronte alla questione morale scaturita dal film: è giu-
Jsto resuscitare i morti? «Mi piace che Frankenstein stia sfidando Dio e voglia prendere il suo posto: è uno scienziato rivoluzionario. Anche se esistesse un Dio, credo lo stesso nella nostra abilità di cambiare lo status quo e il sistema: dieci anni fa la ricerca sulle cellule staminali era considerata “Frankenstein”, ma ora è del tutto normale». C’è mai stato un ruolo che l’ha spinta a fare cose inimmaginabili? «Per Filth - Il Lercio ( in cui interpreta il corrotto sergente di polizia Bruce Robertson, ndr) ho bevuto ogni sera esageratamente, spingendo il mio corpo oltre ogni limite. La mattina mi sentivo come un “sacchetto di granchi spappolati”, così avevo una cosa in meno da fingere di fronte alle cineprese». Lei è sposato da dieci anni con Anne-Marie Duff. È difficile gestire un matrimonio tra due attori di successo? «Siamo costretti a rinunciare a ruoli che ci piacciono ma fortunatamente ce ne offrono abbastanza e riusciamo a coordinarci in modo da avere buone carriere e fare bene i genitori: non vogliamo che nostro figlio Brendan, che ha 6 anni, venga cresciuto da una tata. Ora è il mio turno di restare a casa per quattro mesi». Le piace fare il papà? «Lo adoro. Ma anche quello è un lavoro: alzarsi alle sei e mezzo, pulire, lavare, cucinare... e la sera sono maledettamente stanco». Lei è diventato attore grazie a una borsa di studio stanziata dal go- verno. Per questo oggi ne offre una ai bambini meno abbienti di Glasgow? «Sì, perché ora non esiste più questa possibilità, ma è proprio grazie a una scuola d’arte se ho imparato a credere nel mio valore. Oggi i bambini della working- class sono educati in modo che diventino umili e compiacenti membri della società mentre a quelli delle scuole private viene detto che possono diventare primi ministri. Mi fa una gran rabbia: la mobilità sociale dovrebbe essere quantomeno un’opzione».