RIINA JR
Ci sono cose che nessuno conosce e sa spiegare come Roberto Saviano: una di queste è il linguaggio delle mafie. E chi la settimana scorsa si è sentito a disagio ascoltando l’intervista televisiva al figlio di Totò Riina senza ben capirne il motivo (come hanno detto in molti, compreso Bruno Vespa, Enzo Biagi intervistò Liggio e Sindona e nessuno trovò nulla da ridire) forse avrà trovato una spiegazione al proprio intimo disagio ascoltando Saviano, domenica 10 aprile, ospite di Fabio Fazio.
La questione non è se intervistare o meno un boss, il figlio di un boss, un terrorista: è giusto misurarsi con il male, perché il giornalismo racconta la realtà», ha spiegato. «Il punto è con quali competenze intervistarlo. Bisogna conoscere la grammatica: quando un mafioso va in Tv è perché vuole lanciare un messaggio, altrimenti non ci va, perché il clamore mediatico è controproducente, significa avere addosso gli occhi dell’opinione pubblica, e quindi delle forze dell’ordine». Perché dunque Salvo Riina avrebbe corso il rischio? Che messaggio aveva da porgere, e a chi?
Secondo Saviano, e lo ha spiegato analizzando parola per parola il linguaggio del figlio del vecchio boss, paragonandolo anche a quello del figlio di Provenzano intervistato quattro anni fa da Servizio pubblico, il messaggio televisivo era per due entità: la magistratura e la nuova Cosa Nostra. Alla magistratura Salvo Riina starebbe suggerendo: «Togliete il 41 bis a mio padre e in cambio mio padre vi darà una cosa: prenderà responsabilità individuali, si dissocerà». Starebbe dicendo: «I vecchi valori di Cosa Nostra sono finiti, vogliamo la tregua, la fine del regime di carcere duro. La vecchia Cosa Nostra non c’è più, noi chiediamo allo Stato di riconoscerlo e di non far cadere sulle spalle di mio padre un’organizzazione che non esiste più. Non ci pentiamo, odiamo i pentiti, ma potremmo dissociarci, come fecero i brigatisti». Ed è a Matteo Messina Denaro – alla nuova Cosa Nostra – che si rivolgerebbe soprattutto, dicendo: «Noi non parliamo, noi abbiamo altri valori, famiglia, parsimonia, territorio – non lusso e sregolatezza, non badare solo ai propri affari invece che a quelli dell’organizzazione. Noi non siamo pentiti, noi restiamo i corleonesi, i custodi dei valori».
Per contrastare le mafie non bastano gli arresti e i proclami, ha lasciato intendere Saviano. Serve innanzitutto competenza, una competenza che sta sparendo. «Non pensiate che la battaglia alle mafie sia una battaglia morale, è una battaglia di conoscenza, di studio dei meccanismi». Di competenza. Come per tutte le battaglie.