Vanity Fair (Italy)

CON LE AMICHE FIGHE»

«DI ESSERE BELLA NON L’HO MAI PENSATO. AVEVO AMICHE MOLTO PIÙ BELLE DI ME. ERO SIMONA, QUELLA SIMPATICA

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ose lasciate da Simona Ventura sull’Isola dei famosi: dieci centimetri di girovita, otto chili di – tiene a precisare – massa magra, qualche amico, qualche nemico, moltissime lacrime, un pettine di plastica trovato sulla spiaggia, la fame, la paura, lo sconforto, la dipendenza dal suo cellulare, la tentazione dei ritocchini, la voglia di truccarsi. E una pelle di cobra: la sua. Cobra si era definita lei in una nostra intervista di qualche anno fa, diceva di averne la pazienza, e poi, al momento giusto, la ferocia. Si capisce che le piaceva questo gioco della donna cattiva, la ragazza di provincia che si è fatta da sola, senza padrini né padroni, che a un certo punto, fatti i figli, ha tentato l’equilibris­mo di molte: tenere insieme tutto. «Ma non ci sono riuscita, ci ho rimesso un matrimonio», ammette. La sua storia profession­ale e personale è un ottovolant­e: per ogni discesa, una risalita. Il suo mantra «crederci sempre, arrendersi mai» è diventato un accessorio del suo personaggi­o insieme ai tacchi alti e al braccio teso in avanti con il dito puntato verso la telecamera, verso quel «pubblico sovrano» che è un altro dei suoi credo. All’Isola dei famosi – che ha condotto per otto edizioni – è andata «per chiudere un cerchio. Le cose che rimangono aperte non mi vanno né su né giù, e devo continuarc­i a fare i conti. L’Isola era un abito tagliato su di me, che poi è stato indossato da altri. Chiudere è fondamenta­le, in tutto, perché solo se chiudi, vai avanti. Naufragare è stato il mio modo di chiudere». L’epilogo è noto e si sintetizza in una clip: la Ventura che piange disperata a Playa Soledad e dice: «la gente mi odia». Ma se vi aspettate una donna abbattuta, non avete capito niente di lei. Al nostro incontro si presenta con un completo pantalone nero, il viso struccato, i capelli perennemen­te tormentati dalle mani. Chiede di sedersi non su una sedia ma su una poltroncin­a imbottita: «Ho bisogno di cose un po’ comode». Compliment­i, la trovo in grande forma. «Tutti mi dicono: sei dimagrita, sei figa. Come se la magrezza fosse sinonimo di bellezza. Comunque sì, peso quanto pesavo prima di avere i figli, e anche nel mio annus horribilis, il 2004. Ho patito una fame nera, una fame che non immaginavo si potesse sentire». È stata un’esperienza utile? E non intendo per la linea. «Sì: ho capito che ne avevo bisogno. La mia vita era diventata non dico borghese, ma lineare. E io non sono una persona lineare, nella normalità non ci sto bene, ho sempre bisogno di emozioni forti. La vita mi deve frustare. Adesso la frustata l’ho avuta, e grossa: forse mi posso tranquilli­zzare per un po’». Chi ha tenuto in mano la frusta? «Un tempo il televoto costava un euro, non esistevano i social, la gente votava per sostenere, non per fare a pezzi. Adesso – e io non lo sapevo – esistono gruppi organizzat­i sui social che votano contro, per eliminare. La differenza è sostanzial­e: puoi danneggiar­e il tuo bersaglio gratis e dire qualunque cosa nascondend­oti dietro una tastiera e un nickname. Conosco colleghi bravissimi che se tra 200 mila commenti ne leggono 5 malevoli vanno in crisi. L’Isola mi ha aiutata anche in questo: mi sono resa conto della mia dipendenza da smartphone e social». Si è disintossi­cata? «All’inizio è stata durissima: quando guardavo un tramonto continuavo a pensare che fosse un peccato non poterlo fotografar­e e mettere su Instagram. Io e Marco Carta ci dicevamo: cazzo, ci vorrebbe il telefono. E fingevamo di averlo in mano e di scattare. Poi ho iniziato a pensare che, con quelle immagini e quei colori, dovevo fare come avevo sempre fatto fino a qualche anno fa: sempliceme­nte imprimerle nella mente e ricordarle. E sono guarita. Da quando sono tornata non ho ancora guardato niente, non ho aperto nemmeno un social e ho deciso che toglierò Facebook e Twitter dal cellulare. Non solo: mi sono data e ho dato nuove regole in famiglia sull’uso del telefonino». Con due figli adolescent­i, non sarà facile. «In realtà sono contenti anche loro. Prima, quando passavamo il tempo insieme, io stavo sempre con il telefono in mano. C’ero ma non c’ero. Adesso lo spengo, lo lascio in un’altra stanza. Quando siamo a tavola nessuno porta il cellulare. Di notte i telefoni stanno spenti. Sono cresciuta con un solo telefono in casa, a cui mia madre aveva messo pure il lucchetto. Che peraltro io ero riuscita a scassinare con una forcina. Però era bello. Vogliamo convincerc­i che essere sempre connessi sia una necessità, ma non è vero. Molti miei amici hanno abbandonat­o gli smartphone per i vecchi telefoni che non fanno niente». L’abbiamo vista piangere in modo disperato nella settimana che ha trascorso da sola su Playa Soledad. Quale è stata la cosa che più l’ha fatta soffrire? «Non sentirmi accettata dagli altri. E non me l’aspettavo. Molti ragazzi dell’Isola sono arrivati già ostili nei miei confronti e, ovviamente, non sono riuscita a instaurare con loro nessun rapporto. Quando giovane lo ero io, mi avvicinavo alle persone più grandi con rispetto, desiderosa di imparare. Adesso molti giovani pensano che dietro la vicinanza ci sia un secondo fine. E mi dispiace, perché io di ragazzi ne ho lanciati tanti, ovviamente quelli che meritavano. Sull’Isola un gggiovane – di cui non farò mai il nome – mi ha chiesto cosa fosse la meritocraz­ia: non ne aveva mai sentito parlare». Ha detto di averla già provata quella sensazione disperante: quando era una ragazzina che non voleva uscire dalla sua stanza. «Sono stata una bambina e una ragazza ipersensib­ile: le parole degli altri mi ferivano nel profondo. Per proteggerm­i dal dolore stavo

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