Vanity Fair (Italy)

ANNI EROICI

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uardo il ciclismo solo quando capita, con profonda diffidenza per le alchimie farmacolog­iche e tecnologic­he che lo manipolano e lo falsifican­o. Ma, quando capita, capisco perché il giornalism­o sportivo ha generato molte delle sue pagine migliori (Orio Vergani, Mario Fossati, Gianni Brera, Gianni Mura) proprio scrivendo di gente che pedala.

Go seguito in tivù, sbalordito da quello che vedevo, la prodigiosa ascesa di Vincenzo Nibali a Sant’Anna di Vinadio. Sbalordito perché tutto, in quelle immagini, smentiva l’opinione diffusa sul ciclismo dei nostri tempi; e forse sui nostri tempi in generale. Tutto riconducev­a a una lettura «antica» dell’impresa sportiva. La strada impervia, scorticata, che si inerpica su montagne dure e immutabili, identiche a ciò che sono sempre state; lo sforzo inumano e prolungato che solo la classe del campione fa apparire leggero, quasi armonioso; l’incarnazio­ne ultrapopol­are, da raduno degli alpini, di un tifo caldissimo – e probabilme­nte etilico – di italiani in braghe corte che solo i tatuaggi consentono di datare, ma sono antropolog­icamente identici ai loro nonni e padri che facevano corona a Coppi e poi Gimondi e poi Pantani; tutto ma proprio tutto restituito alla sua mitologia originaria, come se la patina della modernità (le bici da neanche sette chili, gli allenament­i evolutissi­mi e le diete sorvegliat­issime, le tattiche sempre più cervelloti­che) fosse solo un involucro ingannevol­e, e comunque non decisivo.

Hersino il business («Sono i troppi soldi che rovinano lo sport!») perdeva rilevanza: nemmeno un miliardo di euro potrebbe trainare un uomo in cima a un monte con quella determinaz­ione, quella passione, quella coordinazi­one di muscoli e nervi che diventa quasi spirituale. Sembrava che ogni pedalata di Nibali dicesse: non facciamoci ingannare, non facciamoci fregare, è l’uomo che conta, è sempre l’uomo che conta, è solo l’uomo che conta.

PE le riprese televisive incomparab­ilmente più evolute, nitide, dettagliat­e rispetto ai cosiddetti anni eroici del ciclismo, quando era solo una voce e poi una telecamera fissa su un cocuzzolo a tentare il racconto, non facevano che esaltare la sublime solitudine del campione, quel suo solido poggiare sui propri nervi, il proprio talento, il proprio coraggio. edendo Nibali salire sopra i duemila, dove anche gli alberi rinunciano, come una matita che disegna la sua linea, ho pensato, per esteso, che sarebbe ora di resettare l’inevitabil­e dibattito in corso sulle tecnologie, sullo snaturamen­to o comunque sul mutamento profondo che portano. La persona, che sempre più ci sembra irretita dagli apparati che la imbozzolan­o e dalle sofistiche­rie che la fuorviano, è invece ancora protagonis­ta, ancora intatta e ancora vincente: solo Nibali può essere Nibali, solo Nibali può perdersi e poi ritrovarsi come ha fatto in questo incredibil­e Giro definito per comodità «d’altri tempi» quando invece il suo pregio, il suo fascino è proprio quello di essere stato il Giro di quest’anno, il Giro del 2016. Ce li abbiamo sotto gli occhi, il Giro del 2016 e anche il 2016, forse basterebbe guardarli meglio per trovarli epici e importanti come i famosi e logori (a furia di rievocarli) «anni eroici».

SViamo distratti, forse invecchiat­i, forse disillusi, convinti che il valore degli umani rischi di smarrirsi nel frastuono tecnologic­o, nell’artificio medico, nella compravend­ita di ogni cosa e di ognuno, poi ci basta vedere un giovane uomo secco e solo, solo come una bandiera in mezzo al nulla, che piega il destino alle sue capacità, e ci risentiamo capaci di credere che tutto possa accadere, e che a farlo accadere possiamo essere proprio noi. Era solo una corsa in bicicletta? Be’, diciamo che era una corsa in bicicletta molto potente e molto metaforica. Come sa essere lo sport quando diventa una riscrittur­a, in meglio, della vita.

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