Vanity Fair (Italy)

E SI CREA UN GRANDE VUOTO»

«LA SOLITUDINE MI FA PAURA: QUANDO FINISCONO I CONCERTI, SVANISCONO LE MANI CHE TI HANNO TOCCATO E LE VOCI CHE HANNO GRIDATO IL TUO NOME, SEI SOLO

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onder Woman studiava nella cucina di un ristorante: «Mentre mio padre preparava le serate di piano bar e io correggevo i compiti di matematica con il cuoco o con il cameriere». Wonder Woman non era mai stata a Milano: «Ero la versione femminile di Renato Pozzetto nel cugino di campagna, la vidi e mi sembrò gigantesca. Le ragazze indossavan­o abiti che io avrei messo solo per andare a un matrimonio». Wonder Woman, figlia di Gianna e Fabrizio, si chiamava Laura Pausini, abitava in un paese di quattromil­a abitanti e cantava Romagna mia: «A Riolo Terme, nei pomeriggi in cui i miei compagni si mettevano in fila per prendermi per il culo». 70 milioni di copie vendute, i tour mondiali tra Toronto e Medellín, la Tv, gli stadi pieni, i talent, il disco Simili, uscito in 60 Paesi e in classifica da novembre, quattro Grammy Award, decine di riconoscim­enti e poi il premio più importante. Quello che la emossiona. Paola ha tre anni e mezzo: «Ed è arrivata nella mia vita, scioccando­mi, quando dopo averla tanto cercata, mi stavo abituando all’idea che il mio vero sogno non si sarebbe mai realizzato». Pausini non le ha ancora mostrato la foto della mamma in costume da Wonder Woman. «Che è un modo di prendermi in giro e di rispondere a tutti quelli che mi chiamano Wonder e mi chiedono sorpresi: “Ma quanta roba fai?”. Io sono stupita del loro stupore, e mi pare sempre di essere un passo indietro a quel che potrei davvero fare». Marco se ne è andato più di vent’anni fa e Laura ha cercato altre stazioni. Non si è mai sentita un supereroe: «Veramente io sognavo di restare dov’ero nata, a Solarolo, vicino a Faenza». Lucio Dalla, Anidride Solforosa, 1974: «Sono andata via perché non è che rimanere sempre a Faenza mi interessas­se troppo». «Non sono io e non è la mia storia. Io non avevo nessuna aspirazion­e di andarmene. Volevo suonare, accompagna­re mio padre nelle sue serate da piano bar, cantare le mie cinque canzoni e tornarmene a casa a dormire. A casa stavo benissimo. Una volta io e il mio babbo andammo a suonare in Germania, a Treviri, la città di Marx. C’era una festa della birra, dormimmo in albergo per una settimana. Soffrii per ogni singolo giorno che passammo lì». Per l’albergo? «Il posto era lontano e l’albergo era tremendo, ma il punto era che io stavo male anche se mi toccava dormire a Cervia. Quando a Sanremo vinsi tra le Novità, andai dal mio babbo molto preoccupat­a: “Adesso che succede? Mica mi toccherà andare a dormire negli hotel?”». Oggi praticamen­te negli alberghi ci vive. «Di 365 giorni, 300 li spendo passando da un posto all’altro. Agli inizi, quando potevo, tornavo sempre a dormire a casa. Ora l’inquietudi­ne l’avverto quando a casa passo troppo tempo». E per cos’altro la avverte? «Per la solitudine. Mi fa e mi ha sempre fatto paura. Forse cerco sempre di stare in compagnia anche per questo. Quando finiscono i concerti, svaniscono le mani che ti hanno toccato e le voci che hanno gridato il tuo nome, sei solo e si crea un grande vuoto». Lei ha vissuto con la sua famiglia per molti anni. «Da un lato volevo camminare con le mie gambe, dall’altro temevo che andandomen­e da casa avrei distrutto per sempre la mia famiglia, e non riuscivo a sopportarl­o. A un certo punto presi e, senza dir niente a nessuno, me ne andai. I miei si arrabbiaro­no moltissimo: per la prima volta in vita mia non gli avevo chiesto il permesso». Lo chiedeva sempre? «Per tutto, anzi per tuttissimo. Quando a ventotto anni mi ritrovai completame­nte sola a Milano dopo un rapporto finito male, però, l’angoscia fu così intensa che andai dallo psicologo per parlarne. Emancipars­i non è stato semplice. Così come non è stato facile riuscire a liberarsi dell’ingenuità». Era ingenua? «Di più. Da ragazza non vedevo mai il brutto nelle persone che mi si muovevano intorno e nelle cose che mi succedevan­o. Per distinguer­e c’è voluto tempo. E per un certo periodo, a forza di prudenze, ero diventata così controllat­a e guardinga da non riuscire più a essere spontanea. Nei sentimenti l’equilibrio non è una cosa automatica. Per fortuna la leggerezza è tornata e, con lei, anche l’ingenuità. Conosce quella canzone di Gianna Nannini intitolata America?». Lei che scende e che sale e si tocca l’America. «Ecco, quella. Fino al 2009 ho sempre pensato che si trattasse veramente di una canzone sugli Stati Uniti. Ero con Gianna alle prove per il concerto di solidariet­à per l’Abruzzo colpito dal terremoto e lei disse: “America non la canto perché è troppo erotica”. Io, seria, chiesi: “Perché?”». Quando cantò per la prima volta? «Nella mansarda di casa nostra, dove il babbo teneva gli strumenti. Quando non provava il repertorio salivo, facevo partire la base e cantavo. Con lui ho girato per anni. I panini degli autogrill della bassa li conosco uno a uno». Suo padre, pianista di piano bar, non riuscì a vederla debuttare a Sanremo. «Aveva trovato un buon ingaggio, suonava a una festa privata. A un certo punto il proprietar­io fermò la musica e chiese un momento di attenzione. E il babbo mi vide nello schermo a cantare La solitudine. Alla fine di quella festa, prese la macchina e mi raggiunse in Liguria. Non averlo avuto accanto, dopo tanti anni passati fianco a fianco, fu molto strano. Prima di allora eravamo stati sempre insieme».

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