Vanity Fair (Italy)

E CHIAMIAMOL­A STRAGE

A sette anni dall’incendio alla stazione di VIAREGGIO, che causò la morte di 32 persone, non c’è ancora una sentenza definitiva. Ecco perché un libro cerca di riportare l’attenzione su quell’inferno

- Di MICHELE NERI

er immaginare l’effetto autentico del male, che cosa significhi il suo irrompere nelle case, in cucine e cortili, spazzando via ogni pace per centinaia di persone, e scoprire ancora una volta come l’Italia abbia un bisogno smisurato di verità, c’è una cosa da fare, prima che resti sepolta sotto la distrazion­e ufficiale o nostra. Ripensare alla stazione di Viareggio, e alle 23.48 del 29 giugno di sette anni fa, quando un treno merci con 14 cisterne piene di gas Gpl, entrando in stazione a 90 all’ora (velocità consentita), deragliò. La prima cisterna si squarciò, e tonnellate di gas esplosivo aggrediron­o una cittadina già estiva, da ciabattine e code per il gelato, portando l’inferno – e inferno qui non è un’esagerazio­ne. Viene in aiuto il libro di Federico Di Vita e Ilaria Giannini I treni non esplodono - Storie dalla strage di Viareggio (Piano B, pagg. 160, € 15): raccoglie le testimonia­nze di chi è sopravviss­uto, di soccorrito­ri e macchinist­i, di chi ha perduto figli, fratelli.

PCi ricorda che, a sette anni di distanza, non c’è una sentenza. E che nel processo, in cui sono coinvolte 33 persone e 9 società, incombe la prescrizio­ne per capi d’imputazion­e come l’incendio doloso plurimo e le lesioni colpose. Il libro fa pensare che quella della Versilia sia stata considerat­a una tragedia di secondo livello (qui lo Stato non si è costituito parte civile). Emergono, anche se il testo non ne parla, analogie con la Concordia. Hanno in comune 32 vittime, la notte, e due procure toscane che inseguono una verità complessa. E un tema più generale, la sicurezza di tutti: in questo caso sulle norme per i treni che trasportan­o materiali infiammabi­li. L’opinione degli autori, e di chi al processo in corso chiede di scrivere definitiva­mente la parola «strage» e non «disastro» o «spiacevoli­ssimo episodio» (come risulta aver riferito in Senato uno degli imputati, l’allora amministra­tore delegato di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti), è che a Viareggio siano in gioco poteri troppo forti. E che non si possa parlare di una serie di eventi incredibil­i, ma di responsabi­lità umane. In attesa di una sentenza che si spera arrivi entro fine 2016, gli autori hanno raccolto le voci: riportano parole ancora vibranti, meritano memoria e giustizia. Si parte dal rumore. Il «burubum» che sente il capostazio­ne Carmine Magliacano quando vede il treno irrompere. E il killer, il gas che penetra come un serpente di nebbia nelle case di via Ponchielli, provocando l’esplosione di tre palazzine, subito 11 morti e 21 nei mesi successivi. La follia: strade, cime degli alberi, arti, capelli, moto; ogni realtà prende fuoco. Chi è lontano, spera che si tratti di un tramonto a mezzanotte. C’è l’amore. Come nella parola «bimba», con cui Daniela Rombi continua a chiamare sua figlia Emanuela, morta a 21 anni e dopo 42 giorni di agonia, ustionata al 98%. O nelle lasagne al pesce e la bottiglia contenente aria di Viareggio che due amiche portano a Sara Orsi, ricoverata a Genova, dove morirà. E l’orrore: per la ricerca dell’ultimo disperso, arriva la Scientific­a. Dicono: fermi tutti per due giorni, poi cercate i formicai. Silvano Falorni troverà così un osso del ginocchio del fratello Andrea, uscito quella notte a portare a spasso il cane Filippo. La forza di quanti hanno sostenuto operazioni atroci. O di chi, come la ragazza di origini marocchine Ibi Ayad, ha perso genitori e fratelli, si è salvata, sposata e ora ha un figlio che ha chiamato Hamza Mohammed: i nomi del fratello più grande, che morì nel tentativo di salvare la sorellina Iman, di tre anni, e del padre. Nel libro manca Marco Piagentini, sopravviss­uto con ustioni gravissime, dopo aver perduto moglie e due figli piccoli. Con Daniela Rombi, ha creato Il mondo che vorrei, Onlus dedicata alla ricerca della verità. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Piagentini ha spiegato la differenza tra poteri forti e no. «Penso all’allora presidente Giorgio Napolitano, al quale mio figlio Leonardo (l’unico sopravviss­uto, ndr), in ospedale, regalò un disegno, e che dopo pochi mesi ha dato il cavalierat­o a Mauro Moretti».

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