I MILLE SAPORI DI SYDNEY
Il super chef danese René Redzepi si è trasferito per 5 mesi in Australia. Ora è tornato a casa, ma ha lasciato un segno. Delizioso
C’ è una formica nel mio piatto, anzi ce ne sono una decina, incrostate come granella su alcuni dolcetti alla frutta, ma non è un problema di igiene; sono lì per essere mangiate, cosa che faccio senza protestare anche perché a impiattarle è stato René Redzepi, che le ha portate in tavola annunciando: «Game time». Siamo in un ristorante di Sydney che ora non c’è più, e non perché mancassero i clienti; quando lo abbiamo visitato, la scorsa primavera, in lista d’attesa c’erano 27 mila persone che avrebbero fatto carte false per stare davanti ai nostri petit fours con le zampette. Il Noma di Sydney non c’è più, ma ha lasciato il segno. Ora è tornato a Copenhagen, alla sua vita da tempio della nuova cucina nordica, ma per dieci settimane si è concesso il lusso (da 495 dollari australiani, circa 330 euro, per un menu di 12 portate) di fare i bagagli e trasferire in Australia tutta la brigata, dal super chef Redzepi fino all’ultimo lavapiatti. È stato l’evento mediatico dell’anno: prenotazioni sold out in sette minuti. Abbiamo deciso allora di imbarcarci anche noi (Qatar Airways inaugurava negli stessi giorni la rotta Milano-Sydney) per testare il motivo di tanta fibrillazione. Mangiare in Australia è un’avventura e René Redzepi lo sapeva. Non per niente è il visionario che ha elevato i licheni alla preziosità del foie gras. 38 anni, metà danese metà albanese, carismatico, disponibile, sta alla cucina come Thom Yorke dei Radiohead sta al rock. La sua rivoluzione si chiama foraging e porta l’idea del chilometro zero a una radicalità quasi metafisica: il cuoco si fa esploratore di cespugli, boschi, spiagge, ovunque ci siano ingredienti selvatici con cui sperimentare. A Tourism Australia hanno centrato l’obiettivo quando hanno puntato su di lui per la più ambiziosa operazione di rilancio del Paese come paradiso dei foodies. Sulla carta era un paradosso: per affermare una sua potenziale cucina non più dipendente da quella europea, l’Australia cosa fa? Chiama un europeo. Ma era una scommessa vincente. Per cinque mesi Redzepi ha battuto con i suoi foraggiatori l’immenso continente, il bush, le foreste, le città sulla costa, le spiagge. Un’ubriacatura da cui è nato il menu composto solo da ingredienti locali: i fiori di Lantana, le ostriche condite dal grasso di coccodrillo, la neve di granchio pescato a mille metri di profondità nel mare Artico, con cui lo chef prepara un brodo ghiacciato «che mi ricorda», ci spiega, «la sensazione che provavo da ragazzino quando saltellavo sulle pozzanghere gelate». Le formiche usate per i dolcetti di mango venivano dal Nord, per la precisione da Darwin. Mangiarle da queste parti non è così strano; per 50 mila anni gli aborigeni sono sopravvissuti sgranocchiandole (sono proteiche, ma tenete presente che ce ne vogliono circa trecento per l’equivalente di un fagiolo). Me le offrono come dessert anche da Billy Kwong, il ristorante dagli interni rosso buddista della cino-australiana Kylie Kwong, vulcanica adepta del biodinamico. Se le chiedi l’acqua ti porta quella filtrata dal rubinetto, e anche le formiche sono bio, nel senso che sono proprio vive. Alcune eleganti signore mi mostrano gentilmente come fare: «Le prendi dalla testa, così, e le mangi dalla coda, senti com’è piccante?». Chiacchiero con Kylie per prendere tempo, e scopro che la sua svolta bio la deve proprio a Redzepi. Nel 2010, fresco dei successi del Noma, era andato a Sydney per spiegare il foraging. Si era meravigliato che nessuno gli avesse offerto della carne di canguro (ai nativi fa impressione l’idea di mangiare Skippy, infatti il 70 per cento della produzione viene esportato, quasi tutto in Russia), e aveva spiegato quanto si può fare con le bacche e le foglie come il saltbush, una specie di bietola rossa con cui oggi Kylie farcisce i suoi ravioli. «Mi ha aperto gli occhi: compravo formaggi e condimenti dalla Francia, quando intorno a me avevo una ricchezza inesplorata». Di fronte alla cotoletta di abalone che ha suscitato gli entusiasmi dei gourmet, Redzepi ci aveva raccontato che tutto il suo menu era un omaggio alla cultura aborigena.
Anche la scelta della location. Barangaroo era un immenso magazzino di container navali lasciati ad arrugginire; 6 miliardi di dollari di investimento ne hanno fatto un’area verdissima affacciata sulla baia di Darling Harbour, con residenze di lusso, hotel, casinò. Una grande scritta dorata, Imagine, segnalava il basso edificio del Noma. Lì, anticamente, gli aborigeni andavano a pescare; quando l’area è stata ripulita, hanno trovato strati millenari di conchiglie. Barangaroo era anche una pescatrice, seconda moglie di Bennelong, che a scuola studiano perché è stato il principale interlocutore tra la cultura aborigena e quella britannica. Bennelong è anche il nome di uno dei locali più glamour del momento, e si trova dentro la spettacolare Opera House; vetrate immense sul porto, il bar in cima a una scalinata, si respira un’aria da Grande Gatsby, ma è lusso accessibile. Lo chef è Peter Gilmore, che regna anche nelle cucine del ristorante n.1 della città, il Quay. Nel club dei più esclusivi sono nomi fissi il Sepia, il Rockpool, il Silvereye (che Sam Miller, fattosi le ossa al Noma, ha aperto all’interno dell’Old Clare Hotel) e The Bridge Room, dove il must è il filetto di pesce san Pietro al finger lime; per Redzepi questo agrume, una sorta di caviale di limone, è stato un colpo di fulmine, si è anche portato via dei semi per provare a farlo crescere a Copenhagen. Se avete voglia di giocare ai foraggiatori, uno dei luoghi battuti dai cercatori del Noma è stata la spiaggia di Bondi. Ormai una cartolina, patinata come gli interni candidi dell’Icebergs – cucina italiana creativa affacciati sulle onde cavalcate dai surfer in pausa pranzo – può però riservare sorprese. Come pure la più hipster spiaggia di Manly, un tempo la Ellis Island australiana (gli immigrati che arrivavano malati venivano messi qui in quarantena), oggi popolata da mercatini bio, birrerie artigianali e caffè che ti rimpinzano di succhi organici e tè kombucha fermentato. Consiglio vero: non ripartite senza aver trascorso una mattinata al Sydney Fish Market: a perdersi tra le decine di banchi innaffiati dai commessi orientali, fra granchi blu e distese di barramundi, si capisce perché Redzepi prima di partire ha dichiarato che c’è «un prima e un dopo l’Australia nella mia vita». Il tour guidato merita: vi faranno assistere alla mitica asta che ogni giorno batte circa 2.700 cassette, con ristoranti e privati che si fanno la guerra dei nervi, perché qua il prezzo anziché salire scende, e vince chi può permettersi di schiacciare prima che scenda troppo.