Vanity Fair (Italy)

FIGLIA UNICA, CON SORELLA

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iglia unica in una famiglia dove per non ferire, per non deludere, si tacciono i dolori. Ma figlia unica non mi sono mai sentita. Ho una zia di pochi anni più grande, siamo cresciute insieme, tirate su da una bisnonna come sorelle, sempre vicine. Anche quando lei si è trasferita all’estero, anche dopo il matrimonio, anche durante l’amaro divorzio. Ho raccolto in una scatola tutte le nostre lettere. Da oltre vent’anni mia sorella è sieroposit­iva. Me l’ha confidato di getto, poco tempo fa, con uno sforzo immane. Meditava da tanto di parlarmene, ma non mi riteneva pronta, io con le mie sedute di psicoterap­ia per superare problemi alimentari e familiari. E ho pianto, perché in un nanosecond­o ho capito che i miei guai non sono nulla davanti a quello che ha vissuto lei. Dopo lo shock ho razionaliz­zato, ho deciso di informarmi, di capire meglio questa malattia di cui non si parla più da troppo tempo. Ho capito cosa sono i linfociti CD4 e la carica virale, mi sono documentat­a sui parametri entro cui mia sorella deve «stare» per non sviluppare la malattia vera e propria, l’ho accompagna­ta all’ospedale per i suoi esami semestrali. Quando avete pubblicato la recente intervista a Charlie Sheen sulla sua sieroposit­ività, mi hanno colpito i commenti su Facebook,

Ftutti a scrivere che se l’è cercata con il suo passato di droga e promiscuit­à, nessuno disposto a credergli quando dice di non aver mai usato siringhe, o di aver fatto sesso senza protezione solo due volte. Io credo a mia sorella quando mi dice che non si è mai «bucata», e le credo anche quando dice che il suo ex, tossicodip­endente, l’ha violentata. Ma è così fondamenta­le sapere perché una persona è sieroposit­iva? Non è più importante considerar­la, appunto, una persona, invece che un appestato? Mia sorella ha vissuto per anni con un macigno nel cuore e sullo stomaco. Non si è mai abbattuta, nemmeno quando la conta dei CD4 è scesa sotto i 200. Nemmeno quando ha perso gli amici conosciuti in clinica. Si è tuffata nel lavoro, ha costruito un’invidiabil­e carriera. Leggendo quei commenti mi chiedo: riusciremo mai a immedesima­rci in un malato (di qualsiasi malattia), ad andare oltre il compatimen­to o il giudizio? Per vedere quello che vedo io in lei: la forza, nonostante il peso di anni vissuti con un segreto e con la paura che il domani non arrivi. V.

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