Vanity Fair (Italy)

PERCHÉ NON CI SONO IO?»

«A 15 ANNI HO VISTO UNA DELLA MIA ETÀ IN TV. DICEVA UNA BATTUTA, MALUCCIO. HO PENSATO: PERCHÉ LÌ C’È LEI?

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una cosa che mi ha detto Cara Delevingne, anche lei in Suicide Squad: «A Hollywood tutti si comportano come se venissero continuame­nte spiati. Margot no: lei balla come se nessuno stesse guardando». Si sono conosciute in occasione di un invito al castello di Windsor. Al cameriere che chiedeva: «Champagne o acqua?», Margot ha risposto: «Veramente vorrei una tequila». Cara, che era a pochi passi di distanza, ha drizzato le orecchie: «Qualcuno ha detto tequila?». È iniziata così un’amicizia fatta, tra le altre cose, di scherzi telefonici. Per esempio, mandare lo stesso messaggino nello stesso momento alla stessa persona. Nella fattispeci­e, il principe Harry, vecchio amico della Delevingne («Uno così simpatico e normale che, la prima volta che me lo ha presentato, neppure ho capito che era lui»). Testo del messaggio: «Ho fatto un sogno e nel sogno c’eri tu». Risposta: «È evidente che voi due siete insieme, però essere nei vostri sogni è sempre un piacere». obbie si sfila i calzoncini e scivola in acqua come una lama. Quando riemerge, con i capelli lisciati indietro, capisco chi mi ricordava: Margaux Hemingway, in un famoso scatto di Douglas Kirkland degli anni Settanta. Esce dalla piscina e si stende sulla sdraio. Le dico della somiglianz­a, e lei cerca la foto su Google. «Accidenti, che splendore». Forse per via dell’adolescenz­a da surfista, il piacere dell’attività fisica sembra superare per lei tutto il resto (anche se adora i red carpet: «O meglio, mi piace la preparazio­ne, più che l’evento in sé»). La tendenza a vestire semplice è anche una strategia. Persino qui in albergo passa inosservat­a. «Se mi vesto così nessuno mi nota. È quando mi trucco, mi vesto bene e mi faccio i capelli che non riesco a fare dieci metri senza che mi riconoscan­o». Le dico che il suo nome si può scrivere in molti modi: Margaux, Margo, Margot. «Dicevo sempre: “Mamma, c’era un modo semplice per scrivere il mio nome, e tu hai scelto quello che sbagliano tutti. O si dimentican­o la “t”, oppure la pronuncian­o», racconta ridendo (da bambina il suo

Rsoprannom­e era Maggot, «vermicello»). «Ora finalmente lo scrivono giusto. È lì che ho capito di avercela fatta». Margot è cresciuta con la madre Sarie Kessler, fisioterap­ista, più due fratelli e una sorella in una casa minuscola (i genitori hanno divorziato quand’era piccola). «Per mia madre ho un’adorazione», dice. «È una creatura sublime e con il cuore più puro che esista». Finiamo a parlare dei punti in comune fra le nostre infanzie: un sacco di figli, una casa con un solo bagno, tutti che si sbattono per far quadrare i conti. Il classico contesto che può instillare un’ambizione divorante. «Frequentav­o una scuola dove i miei amici erano benestanti», racconta, «e a casa loro ci andavo spesso, per cui sapevo com’era la ricchezza. Solo che io i soldi non li avevo, e quindi pensavo: “Ecco, io so esattament­e cosa voglio”». Ha fatto diversi lavoretti – servito al bar, preparato panini, venduto tavole da surf – e questo, dice, le ha dato una grande sicurezza. «Fingere di essere quello che vorresti essere, finché non lo sei davvero: è un trucco che con me ha funzionato alla grande. Più ci provi, più ti rendi conto che nessuno sa davvero cosa sta facendo. Fingono anche loro, perché nessuno sa sempre e fino in fondo quello che sta facendo. Devi solo darti da fare». E il suo modo di darsi da fare ha indirizzat­o la carriera di Robbie prima ancora che cominciass­e. «Un giorno stavo guardando la Tv, avrò avuto quindici anni. In una scena c’era una ragazza della mia età che diceva una battuta, e la diceva maluccio. Al che ho pensato: “Ma perché lì c’è lei? Perché non ci sono io?”». utte le persone con cui ho parlato di Margot Robbie, senza eccezioni, sottolinea­no due cose: che è sempre pronta a provare cose nuove e che ha la sbalorditi­va capacità di essere brava in tutto. Un paio d’anni fa, quando nella casa di Londra erano ancora in otto, Robbie ha stabilito una regola: nessuno ci viene a vivere se non si fa il tatuaggio della casa. Hanno quindi trovato un tatuatore di nome Pedro. Un giorno, mentre lui tatuava Ackerley, lei lo ha implorato di lasciarla

Tprovare. «Ho un’attrazione morbosa per gli aghi», spiega, «mi è anche capitato di fare dei piercing». Alla fine Pedro le ha ceduto lo strumento, Ackerley si è arreso, e insomma: le è presa la passione. Come regalo di fine riprese dopo Tarzan, Sophia – l’amica/coinquilin­a/socia – le ha comprato su eBay una macchinett­a per fare i tatuaggi. «Tra un ciak e l’altro di Suicide Squad avevo la gente che veniva nella mia roulotte dicendo: “Ehi Margs, me lo fai un tatuaggio?”». A Cara Delevingne ha persino fatto una cosa che lei chiama «toemoji», cinque faccette sotto le dita dei piedi (in inglese, toes). «Dopodiché abbiamo deciso di farci tutti un tatuaggio “Squad”, David Ayer incluso (solo Will Smith si è rifiutato, dicendo di essere “troppo adulto”, ndr)». Adesso, quando viaggia, la macchinett­a se la porta sempre dietro. u nella suite, dove Sophie è al telefono con il set in Ungheria, in pochi secondi Margot trasforma il tavolo da pranzo in una bottega da tatuatrice. Un laptop spara a tutto volume i Rolling Stones, e lei sta per farmi il mio primo tatuaggio. Perché no? Per un articolo, questo e altro. Abbiamo optato per il numero cinque in caratteri romani (V), visto che compio gli anni il 5 maggio e ho il cognome che inizia per «V». Fa qualche schizzo su carta, poi sul mio braccio e, dopo una falsa partenza, nel giro di pochi minuti è cosa fatta. Mi piace molto, le dico. «Come sono felice!». In quel momento Sophia grida: «Oddio, guardate il cielo!». In silenzio, fissiamo la luna più grande, luminosa e arancione che io abbia mai visto. E Margot Robbie, la stella di un altro firmamento, mi fa: «C’è questa luna, ci sono i Rolling Stones, e io ti ho appena fatto un tatuaggio. Dev’essere questa cosa qui, Hollywood».

(traduzione di Matteo Colombo)

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