Il tofu di Yoko Ono
La signora Lennon era la sua baby-sitter, il padre giocava a scacchi con Marcel Duchamp: GIOVANNI BONOTTO deve molto ai creativi passati da casa sua, che gli hanno trasmesso la passione per la bellezza
IGiovanni Bonotto, direttore creativo dell’azienda di manifattura tessile fondata dal bisnonno Luigi nel 1912. mpresa e imprinting. Il mondo del business e il fascino di un certo altro mondo scorrono insieme, in parallelo, nel sangue di Giovanni Bonotto, fin da bambino. Oggi la Bonotto è una fabbrica lenta, azienda tessile con sistema meccanico e manuale che ben sintetizza la doppia anima di Giovanni, industriale con arte e cappello in testa. Con un modo di pensare, un doppio binario, che l’ha portato a rovesciare il sistema d’azienda, da digitale a manuale, con la scommessa di un’avanguardia a rovescio che ha fatto della Bonotto un punto di riferimento nel mondo del tessile. Il segreto che ha nutrito visioni e cappello è custodito nella speciale infanzia passata a Molvena, nell’illuminato quartier generale della fabbrica in provincia di Vicenza. La ditta di cappelli di paglia fondata nel 1912 dal bisnonno, negli anni in cui Giovanni è bambino è passata al padre Luigi, immerso nell’esperienza artistica di Corrente Fluxus quasi quanto nei macchinari. A Molvena convivono ingranaggi d’industria e soggiorni d’artista, in un’atmosfera che offre a Giovanni un punto di vista piuttosto vivace. Esempi di vita quotidiana. Rubava tempo e attenzione del padre, intersecando i suoi 5 anni di età, «un signore burbero che giocava a scacchi con lui e nemmeno mi salutava». Presenza muta e angosciante di nome Marcel, cognome Duchamp. A 7 anni, al ritorno da scuola, Giovanni passava il tempo con quella ragazza giapponese che girava per casa, con incomprensioni a partire dalla merenda: «Mi faceva mangiare tofu e io volevo solo Buondì Motta». La ragazza era Yoko Ono. A seguire la sorpresa in giardino, quando l’aiuola adibita a campo di calcio viene invasa dagli alberi, installati dall’artista sciamano che piantava tronchi, il tedesco Joseph Beuys. Un traffico d’intrusi, poco apprezzato a quei tempi: «Io e mio fratello eravamo comparse di casa nostra, un impiccio dopo l’altro depistava l’attenzione da noi». Nel frattempo, accanto ai tessuti, la fabbrica produceva una parte di pensiero forte del Novecento, che conta oggi un totale di 17 mila opere d’arte. Sotto il cappello che se possibile non toglie nemmeno al ristorante, Giovanni oggi ringrazia sciamano e giocatore di scacchi, anche la babysitter giapponese: «Non ho più in mente la nutella, quindi mangio volentieri tofu. Soprattutto, la loro presenza ha disarticolato il mio pensiero da fabbrica». Nel 2007 l’intuizione, talmente contromano da sembrare sciamanica, di ribaltare il sistema con l’acquisto in blocco di telai a un’asta in Giappone. Datati 1956, trasformano la Bonotto in fabbrica lenta: a ogni telaio corrisponde un operaio, in un processo manuale che asseconda le fibre e le loro irregolarità. Come si fa in arte, come fa la Bonotto quando si presenta con i suoi manufatti alla Biennale di Venezia, in Triennale a Milano, in un museo a Firenze. Si ringrazia Corrente Fluxus e quel via-vai che pareva impicciare l’infanzia, a nome di Giovanni e dei tanti cappelli da lui indossati dai tempi dell’università: «Per assecondare il fascino di Beuys e l’idea di follia». Nei suoi cappelli c’è la sua follia? «Indicano come sto». Segnaliamo una vertiginosa tuba comprata a Praga, un morbido modello in cammello albino scovato nel deserto del Gobi, la bombetta in lepre selvatica della Patagonia e la serie estiva in carta giapponese, quella usata per i kimono da combattimento. Sotto di loro, l’idea di sogno che incrocia il business, filtrato da un vero atteggiamento di sostenibilità: «Bisogna produrre meno e meglio».