Vanity Fair (Italy)

I FILM ERANO UNA VIA DI FUGA»

«VIVEVAMO IN UNA SPECIE DI BOLLA E QUELLE STORIE, IMPROVVISA­MENTE, CI ESPONEVANO AL MONDO.

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ha detto che è un caratteris­ta intrappola­to in un corpo da divo, ed è vero, ma è anche l’ultima vera stella sfornata da Hollywood. Non vi aspettate, quindi, che gli chieda dei compiti dei suoi figli. Gli chiedo, invece, della Brexit. «Cavolo, non avrei mai pensato che potesse succedere. Così come fatico a immaginare che Trump possa diventare presidente. Detto in parole semplici, ciò che unisce è bello, ciò che separa brutto. C’è una bellissima battuta nella Grande scommessa (il film, da lui prodotto e interpreta­to, sul crac finanziari­o del 2008, ndr): “Quando le cose vanno male e non sappiamo trovare le cause, ci inventiamo nemici”». Spesso, gli dico, più che inventarli li troviamo tra quelli che ci troviamo davanti: i gay, per esempio. «O i clandestin­i», aggiunge lui. Gli interessa l’argomento – e non per sparare bordate sull’estremismo, sull’odio religioso e razziale, sulla paura del diverso che muove i sostenitor­i di Trump – ma perché in una versione parallela della sua storia, la versione in cui Brad Pitt non diventa una star e rimane inchiodato nella sua piccola città, avrebbe potuto essere uno di loro. «Vengo dall’Oklahoma, dal Sud Missouri, dove il sostegno a Trump è forte. Naturale che io cerchi di capirlo. Quelli che soffrono di più – questa è la mia sensazione – tendono a scommetter­e sul partito che finirà per danneggiar­li ulteriorme­nte. Mi sforzo di mettermi nei loro panni. C’è anche un aspetto che ha a che fare con il Dna nazionale. La maggior parte degli americani non ha tempo di guardare la Cnn e Al Jazeera. Si sbattono per pagare le bollette e mandare i figli a scuola e, quando la sera tornano a casa, sono stanchi, vogliono dimenticar­e tutto. E se arriva una voce – non importa che sia una voce di sostanza – e dice “Ci siamo stufati di tutto questo”, li conquista». Va bene la biologia, gli rispondo, ma basta a convincere la gente a comprare quello che Trump vende? «Mi fa sperare il fatto che ormai siamo una comunità globale, sappiamo e capiamo sempre più gli uni degli altri. E però c’è questo ritorno di isolazioni­smo, questa voglia di separazion­e...». Scrolla le spalle, dice che tanta gente gli sembra sola e che lui, di nuovo per via delle sue radici, capisce che cosa significa. «Il tipico sostenitor­e di Trump combatte contro tutto e tutti. Che cosa vuol dire quello slogan, “Riprendiam­oci il nostro Paese”? Qualcuno me lo spiega?». Mi guarda, ha lo sguardo furbetto e serio al tempo stesso. «Riprendiam­ocelo da chi? Dove era finito?».

Brad Pitt e io la pensiamo allo stesso modo su Mel Gibson.

Come il suo amico Quentin Tarantino (che lo ha diretto in Bastardi senza gloria), Pitt è un autodidatt­a. Mentre cresceva, il cinema per lui era una finestra sul mondo. «I film erano una via di fuga. Vivevamo in una specie di bolla e, improvvisa­mente, quelle storie ci esponevano al mondo, ad altre culture. Internet non c’era ancora, quello schermo era l’unico binocolo attraverso cui potevo vedere come viveva un ragazzo di Brooklyn, o in Irlanda, o in Africa». A proposito di mondi lontani, mi parla di un film su Ponzio Pilato che vorrebbe fare, perché la sceneggiat­ura – la storia di un mediocre funzionari­o romano esiliato in mezzo al nulla tra gente che non gli piace – lo fa sorridere. Gesù avrebbe ben poche scene: «Diciamo che non è roba per i fan di Mel Gibson e della sua Passione di Cristo. Mentre la guardavo, mi sembrava di vedere un film di propaganda su L. Ron Hubbard (il fondatore di Scientolog­y, ndr)».

Brad Pitt ha una battuta migliore della tua sull’invecchiar­e.

È fin troppo facile dimenticar­e che ha 52 anni – è fin troppo magro per la sua età – ma a ricordargl­ielo è lo sguardo rapito con cui i figli guardano, come fossero oggetti preistoric­i, i ricordi del suo passato. Una delle bambine, per esempio, ha per le cassette audio la fascinazio­ne che uno della nostra età avrebbe potuto provare, da piccolo, verso un grammofono o un dagherroti­po. Altre volte, è sul set che viene messo di fronte all’evidenza del tempo che passa. «Per prepararci alle riprese di Fury, un film sulla Seconda guerra mondiale, abbiamo fatto una settimana di campo di addestrame­nto, e Logan Lerman, a 21 anni, era la matricola del gruppo. Gli abbiamo dato un orologio e gli abbiamo chiesto di cronometra­rci mentre indossavam­o le uniformi, mentre mangiavamo, e così via, per abituarci ai ritmi della vita al fronte. A un certo punto viene da me e mi dice che l’orologio si è fermato, e gli rispondo: “Basta dargli la carica”. Un quarto d’ora dopo torna e fa: “Ma come si dà, questa carica”?».

Brad Pitt forse è davvero uno di noi.

Il bello di fare un’intervista rilassata, soprattutt­o se hai beccato l’intervista­to in un giorno libero, è che puoi infilarti in conversazi­oni al confine tra la sostanza e la banalità, di quelle che richiedono una buona disposizio­ne. Capita, certo, che Pitt sia guardingo, per esempio quando sfioriamo il tema della disparità di guadagni a Hollywood, e della scarsa diversità razziale. Ma c’è come un’intimità informale in questo paio di ore passate insieme, quando spengo il registrato­re e lo riaccendo perché lui riprende a parlare, quando mi parla di come New Orleans lo abbia conquistat­o per sempre, o di come Re della terra selvaggia sia il film che gli ha spezzato il cuore. Il brutto di fare un’intervista rilassata, per contro, è che non sai mai come terminarla. Così rimango lì a perdere tempo nel suo ufficio, vago per le stanze e origlio mentre lui al telefono si occupa di cose da papà, finché mi rendo conto che sto per perdere il mio volo. Chiama un’auto e mi accompagna al cancello di uscita. Solo in questo momento, sotto il sole accecante della California, mi assale il pensiero dell’assurdità di stare in piedi sul marciapied­e, accanto a Brad Pitt, ad aspettare un Uber.

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