Dietro le quinte
Al cinema di Tati e al corso di mimo con Marcel Marceau il fotografo ARMIN LINKE deve (quasi) tutto: lì ha imparato a muoversi nello spazio. Per rompere artisticamente le regole
ntriamo nel museo Pac di Milano, nell’universo filo apocalittico e iper dettagliato del fotografo Armin Linke, per camminare tra i pannelli che non toccano le pareti – un meccanismo da backstage di teatro – per le immagini del labirinto intitolato L’apparenza di ciò che non si vede. Scatti compresi di voce narrante degli scienziati e teorici invitati a commentare il lavoro dell’artista domiciliato a Berlino ma spesso in viaggio, per fotografare cambiamenti – economici, ambientali e tecnologici – nel suo speciale e immane archivio del contemporaneo. Non bastavano le immagini? «Le voci mettono in dubbio la fotografia stessa e invitano a leggere diversamente la scena». Prospettiva e distanza: «Quando scatti una fotografia devi già avere costruito un rapporto con il luogo, in base al tempo che ti sei potuto o voluto dare. Solo allora, puoi improvvisare». Un’antropologica cura del dettaglio che molto deve a danza e mimo e al cinema di Jacques Tati, precisamente al suo film Playtime: «Sono mondi dove la parola non esiste. Solo spazio e tempo, con cui prendere le misure». In qualche modo è esattamente quello che Armin fa, nel suo lavoro. Scenari monumentali in cui un filtro teatrale è indiscutibile. Un senso che Armin esercita oppure asseconda subito, quando, a vent’anni, comincia a fotografare palcoscenici e backstage: «Tempi e coreografie diventano le tue coordinate». Fuori di lì, quando il suo lavoro passa ai monumentali edifici e al loro spazio, il punto di vista non è forse mai cambiato.
GIRO DEL MONDO
Fino al 6 gennaio alla galleria Pac di Milano la mostra L’apparenza di ciò che non si vede: oltre 170 foto scattate in tutto il mondo accompagnate da un audio raccontano i cambiamenti che economia, cultura e tecnologia hanno portato a livello globale (pacmilano.it).