Vanity Fair (Italy)

IL DIRE E IL FARE

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L’ultima volta che ho visto Tullio De Mauro è stato due anni fa a Ferrara al Festival di Internazio­nale diretto da suo Šglio Giovanni. Erano i primi giorni di ottobre e il professor De Mauro era nel cortile del Castello Estense, dritto in piedi, con un’abbondante giacca blu, camicia azzurrina, lo sguardo intelligen­te e sornione reso glauco dall’età. Stava rispondend­o alla domanda «Come stanno le parole?». Se il più grande linguista italiano – l’autore di un grande dizionario in otto volumi, della Storia linguistic­a dell’Italia unita e di decine di altri testi fondamenta­li – sta per dire qualcosa sulla salute della lingua, tu ascolti attentamen­te, e così ho fatto.

Le parole stanno bene», disse De Mauro. Fece una piccola pausa. «Siamo noi che non stiamo tanto bene, perché molti di noi usano le parole un po’ a schiovere, come si dice a Napoli, un po’ a vuoto, come viene viene, solo per fare impression­e». Se il più grande linguista italiano risponde a una domanda usando un’espression­e dialettale, non lo fa per caso. De Mauro infatti pensava, e lo ricordava spesso, che il dialetto fosse una lingua viva, aŽettiva, per niente in estinzione. Il termine che aveva scelto, schiovere, che signiŠca spiovere ma nell’espression­e napoletana (De Mauro era nato a Torre Annunziata) riferita al parlare a vanvera ha la esse raŽorzativa, e prende il signiŠcato di «piovere a ra”ca», evoca proprio l’immagine precisa precisa di una cascata di parole battenti e disordinat­e, rumorose e un po’ casuali. Come precisa era la sua aŽermazione: un’aŽermazione politica. Chiarita molto bene subito dopo. Disse, cito a memoria, che un alto possesso della cultura intellettu­ale è una condizione necessaria ma non su”ciente per garantire la civiltà di un Paese, e fece riferiment­o a Paesi con un’alta preparazio­ne culturale che nonostante questo avevano combinato na delle caratteris­tiche che hanno reso Tullio De Mauro un protagonis­ta così importante del nostro tempo stava in queste frasi. Perché De Mauro non se ne stava chiuso nel suo studio. Nonostante snobbasse i cellulari, perché pensava che facessero perdere tempo, è sempre stato immerso nel suo tempo, uno studioso che faceva un sacco di cose, si confrontav­a, si impegnava, esercitava insomma la volontà di migliorare le cose, o almeno di provarci. Nella sua lunghissim­a carriera, oltre a scrivere e insegnare, è stato assessore alla Cultura della Regione Lazio e persino ministro della Pubblica istruzione, senza mai far mancare il suo pensiero critico, oltre che la sua competenza. Non ha mai smesso di denunciare l’incredibil­e tasso di analfabeti­smo del nostro Paese, uno dei peggiori tra i Paesi sviluppati. Ma non solo quello delle classi meno agiate. «Una classe dirigente male alfabetizz­ata, quindi non aggiornata, è la rovina di un Paese, molto più di un crollo della Borsa», diceva Tullio De Mauro.

Odisastri, come la Germania e il Giappone. «Non basta il possesso della cultura, ci vuole anche la volontà, delle persone e della comunità. E non basta dire, annunciare, affermare, ma bisogna aver la volontà di fare quel che si dice, e di portarlo a termine».

Uttantaqua­ttro anni, già professore ordinario di Linguistic­a generale, professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza, accademico della Crusca, socio corrispond­ente dell’Accademia dei Lincei, doctor h.c. di tante università straniere. Un grande. Mi sento onorata di averlo conosciuto.

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