Vanity Fair (Italy)

CUCCHI: IL RISPETTO DEL COLPEVOLE RIGUARDA NOI

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Stefano Cucchi era un tossico e uno spacciator­e. Uno che, dentro le regole, non riusciva proprio a starci. Ma è proprio questo che rende esemplare il suo caso, e mette alla prova quel poco o quel tanto che abbiamo capito a proposito di Stato di diritto, e più in generale del lento, faticoso processo di civilizzaz­ione di quelle bestie che siamo. Se Cucchi fosse stato un cittadino modello, nito nei guai per un abbaglio degli uomini in divisa che lo hanno arrestato, sarebbe troppo ovvio e troppo comodo deplorarne il pestaggio, e chiedere giustizia in suo nome. Ma è invece nella tutela di chi sbaglia che lo Stato viene davvero messo alla prova: non per caso si usa dire che la vera cartina di tornasole di una democrazia è lo stato delle sue carceri.

Anche grazie al web, che registra senza pietà le nostre pulsioni profonde – comprese quelle che sarebbe più caritatevo­le nascondere – il caso Cucchi è diventato una specie di derby tra quelli che gridano «viva i Carabinier­i» e quelli che gridano «abbasso gli sbirri». Ma stanno assistendo a un’altra partita, tutta loro, che non ha niente a che fare con la vera partita in corso. Non esiste infatti alcun conƒitto tra la difesa dei Carabinier­i, e della forza pubblica nel suo complesso, e il principio di incolumità del cittadino, specie del cittadino reo messo sotto la custodia dello Stato. Sono le due facce della stessa identica battaglia: lo «sbirro» e il reo sono sottoposti alle stesse leggi, con speciale responsabi­lità di chi quelle leggi deve fare rispettare nel nome dello Stato, dunque nel nome di noi tutti. I Carabinier­i per primi lo sanno, anche se un malinteso spirito di corpo spinge, in casi come questo, alla resistenza passiva di fronte alla possibilit­à (ora una certezza) che il comportame­nto di alcuni di loro venga sottoposto al vaglio di un processo pubblico.

Omicidio preterinte­nzionale, come da tempo suggerisce la logica, è il capo di imputazion­e nalmente individuat­o. Non la volontà di uccidere, dunque; ma l’eventualit­à che il trattament­o violento inferto a Cucchi ne abbia determinat­o la morte. Comunque vada a nire il processo, sarebbe bello che servisse a mettere meglio a fuoco di che cosa si sta davvero discutendo; per che cosa si è davvero battuta, per anni, la famiglia Cucchi. Certo il rigurgito tremendo – in termini tecnici: reazionari­o – che sale da pezzi non piccoli dell’opinione pubblica, e da certi controprod­ucenti sindacatin­i (ciechi e sordi) degli uomini in divisa, non fa ben sperare. Come può arrivare a confrontar­si con il concetto di dignità dello Stato chi scrive «era solo un drogato di merda», e dunque non sa misurarsi neppure con la dignità delle proprie parole? E quanta confusione fraudolent­a nelle ciance politiche di chi lamenta che «i delinquent­i» vengono trattati molto meglio degli uomini in divisa, replica perfetta di quell’altra diceria degli immigrati negli alberghi a cinque stelle a scapito dei poveri di casa nostra. Tutto centrifuga­to e tutto irriconosc­ibile nel calderone di un risentimen­to ribollente, generico, nel quale nessuna questione è più distinguib­ile, Cucchi se l’è andata a cercare come Regeni, i profughi sono nti profughi e veri mantenuti, l’ordine pubblico viene riverito se in forma di rappresagl­ia e aborrito quando è in forma di tutela, prevenzion­e, assistenza, soccorso.

Volendo essere ottimisti: questo ci aiuta a non considerar­e acquisito, perché non lo è a‘atto, lo Stato di diritto. Ci ricorda che il rispetto del colpevole è una faticosiss­ima conquista. E ci costringe a ricordare che l’alternativ­a al complicato viluppo di norme e di comportame­nti che chiamiamo «giustizia» è il linciaggio, il processo sommario, la vendetta, la forca e la tortura, in rappresent­anza spontanea dei nostri istinti.

Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigiona­to, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderem­o di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del Regno — Magna Charta Libertatum, 1215

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