Vanity Fair (Italy)

Alessandro Baricco

ARCHIVO GENERAL DE INDIAS

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L’idea era quella di andare a passeggiar­e intorno al Beaubourg, a 40 anni dalla sua inaugurazi­one, con l’uomo che l’aveva immaginato – ho infatti la fortuna di conoscerlo. Fare tutto il giro, e guardare come lui lo guardava, diciamo. Magari pigliare al volo una frase – è un uomo dalla deliziosa conversazi­one, come tutti coloro (pochissimi) che sanno molto, molto hanno capito, eppure sono ancora capaci di stare ad ascoltare. Com’è noto, si chiama Renzo Piano. Di tanto in tanto manda messaggi e si rma «Il Geometra». Adoro il fatto che usi la G maiuscola. So¢ava tuttavia un vento da Nord e piovevano aghi di ghiaccio, quindi il Beaubourg l’abbiamo appena lambito, e nel lambirlo lui si è fermato, pur nel freddo impietoso, per farmi chinare e osservare per terra l’imbullonam­ento di un grasso montante di ferro sulla pietra del selciato, per nulla aggraziato da una cautela del progettist­a, anzi esibito in tutta la sua pragmatica semplicità, forte e indifeso – nudo. «Venivo da una famiglia di costruttor­i», dice. Io intanto torno bambino perché sono i bambini che, portati di fronte alla facciata di Notre-Dame, poi li ritrovi chini ad adorare la meraviglia di un guscio di nocciola rimasto incastrato nella fessura tra due pietre del lastricato: la quale cosa sarà poi ciò che ricorderan­no de «Il viaggio a Parigi con papà». Ma anche dice, come stupefatto: «Avevo 33 anni». Intende dire quando immaginò (con un compagno di strada di poco più grande) il Beaubourg. Né avevo mai progettato qualcosa prima che non fosse destinato a essere smontato dopo qualche mese, aggiunge. Ma senza arroganza – quasi incredulo, piuttosto, e ancora adesso divertito. La prendo come una lezione riservata ai trentenni che lagnano: da registrare non è tanto la circostanz­a fortuita per cui quell’uomo si vide consegnare, a quell’età, un simile appalto. La lezione da apprendere è che a 33 anni si è capaci di vertiginos­a libertà-indipenden­za-follia, e nella quasi totale mancanza di esperienza: mi chiedo se non sia il caso di ripeterlo instancabi­lmente a chi ha il privilegio di quell’età e l’inclinazio­ne al lamento.

Poi continuere­i a parlare del Beaubourg instancabi­lmente, per esempio ricordando cos’era, ai tempi, poter entrare in una biblioteca in cui i libri te li prendevi da te, o com’è, ancora oggi, farsi trascinare dalle scale mobili sul anco del gran palazzone vedendo scendere Parigi a poco a poco, ma non lo posso fare perché, prima di nire nel freddo a chinarsi sui bulloni, col Geometra mi ero trovato in tutt’altro posto, che non avevo mai visto e di cui adesso mi è impossibil­e non parlare. Di fatto è la sede della Fondazione Jérôme Seydoux-Pathé a Parigi, Avenue des Gobelins. I Pathé sono quelli dei cinema, da sempre, si sa. Lì c’era un teatro, in origine, poi un cinema. Poi hanno chiamato Piano e hanno chiesto se si poteva ricavarne una sede. Lui ha lasciato in piedi la facciata (decorata da Auguste Rodin), poi ha svuotato questa sorta di grande loculo incastrato tra le case e ci ha fatto entrare una specie di lumacone irresistib­ile, che sonnecchia bonario sotto una pelle fatta di 7.600 lamelle di alluminio. Quando sei dentro scopri che lo tiene su una rete di costole in legno, danzanti. Per la cronaca, dentro quel torace leggerissi­mo ho visto una delle più belle sale riunioni della mia vita, e anche una delle più belle librerie. Superato l’istinto a supplicare di poter vivere lì, sono scivolato al piano di sotto dove c’è il museo della Fondazione, ma giusto per curiosità o cortesia, non ricordo più, insomma avevo il lumacone negli occhi quindi in teoria non avevo più meraviglia per altro, guriamoci per delle macchine da proiezione inizio secolo, o almeno così pensavo, ma sbagliando­mi completame­nte, perché i proiettori alla ne erano magnici (degli insetti, ha notato il Geometra) e a un certo punto uno era più bello di altri, una cavalletta, nissimo, leggero, piccolissi­mo, e allora mi chino come a cercare il guscio di nocciola incastrato ecc. ecc., e in e etti lo trovo, in un oggetto minuscolo che scopro chiamarsi: Pathé-baby.

Pathé-baby era un sistema di girare e proiettare lm studiato per bambini o adulti alle prime armi, e lanciato per il Natale del 1922. Fece furore. Usava una struggente pellicola di 9,5 millimetri, che poi veniva arrotolata in pizze grandi come scatole di mentine. Ogni 17 metri, un minuto di lm. La Pathé riversò in quel formato 1.400 lm e adesso eccomi lì chinato su un elegante box di legno dove, una sull’altra, decine di scatole di mentine ancora conservava­no il miracolo del cinema, sigillato da una fascettina minuscola in cui, con carattere un po’ ballerino, se ne tramandava­no per sempre i titoli. Era evidente che erano lì per me – non posso resistere a indici di quel tipo, sequenze di titoli, scritte minuscole, annunciazi­oni di mondo: mi fanno sognare, per usare un’espression­e di cui sconsiglio l’uso. È stato un momento indimentic­abile, benché abbia cercato di non farlo notare agli astanti, per pura vergogna. Lo so, non sono piaceri che si possono regalare ad altri. Ma comunque, posso non provarci? No. La tessitura del cotone. Fabbricazi­one di un pallone di vetro. Le montagne di Kaatskill (Stati Uniti). Villaggi medievali, Périgueux e Sarlat. Il gatto Felix cerca l’anima gemella. Toto aviatore. Vedute alpine. Festa religiosa a Sevilla. Le graziose bagnanti. Intorno a Angkor, Cambogia. La lumaca. Lo scandalo della collana. Max non ama i gatti 1. Max non ama i gatti 2. Fabbricazi­one della porcellana. Evoluzioni sui pattini da ghiaccio. Lourdes. Toledo (Spagna). Raccolta del ca†è in Brasile. Il leone e il topo. Il sogno di Charlot. (Continua.)

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