Vanity Fair (Italy)

Sono stato un bullo

Ogni giorno, in metà delle scuole italiane, avviene un episodio di bullismo. Abbiamo incontrato un ex aggressore. Che si è pentito e dice: «Denunciate quelli come me»

- di GRETA PRIVITERA

Se si è soliti giudicare secondo l’abbigliame­nto, allora Andrea, nome di fantasia, ha tutto l’aspetto di un bullo. Tatuaggi in vista, tre anelli belli grossi alla mano destra, barba da duro. Quando si toglie il giubbotto di jeans, noto incredula le spalle e mi dico che devono misurare un metro di larghezza. Ma se fosse così non passerebbe dalle porte, e lui ci passa senza problemi. Lo so perché varchiamo insieme quella della sua palestra, dove affianca Gabrielle Fellus, istruttric­e di Krav Maga, una disciplina di combattime­nto e autodifesa che ha iniziato durante il suo percorso di redenzione su consiglio del centro antibullis­mo del Fatebenefr­atelli di Milano, unico ambulatori­o pubblico in Italia per il bullismo e i disturbi adolescenz­iali, che all’attività di psicoterap­ia affianca quella dell’arte marziale per il controllo dell’aggressivi­tà e la crescita dell’autostima.

Intorno a noi ci sono sacchi da pugilato, specchi e armi giocattolo. Mentre posizionia­mo le sedie pieghevoli sui materassin­i che ricoprono per intero il pavimento, lui mi dice che «la polizia comunque mi ferma spesso per le perquise», e non capisco se è motivo di fastidio o di vanto. Andrea ha 20 anni, e per quasi cinque, quelli del liceo, ha bullizzato tre compagni di classe. Li ha umiliati, derisi e anche picchiati per il loro aspetto fisico e perché non erano «abbastanza fighi». Poi, un pomeriggio dopo la scuola, sdraiato sul divano di casa mentre sua madre era in ufficio e suo padre nell’azienda di famiglia, ha capito che quello che stava facendo era terribile. «Mi sono messo nei panni degli altri, e ho provato un senso di colpa che non conoscevo. In quelle ore ho collegato tutto. Per esempio, ho realizzato che i miei compagni ridevano alle mie battute solo perché erano terrorizza­ti. La mia popolarità non era legata a chi realmente ero, ma al potere e alla paura che esercitavo. Ero un leader, sì, ma un leader negativo». Incontro Andrea alla vigilia della prima Giornata nazionale contro il bullismo (7 febbraio) e dopo il discusso episodio avvenuto nel Collegio San Carlo di Milano, una scuola privata del centro frequentat­a anche da figli di famosi. Una bambina di 7 anni sarebbe stata insultata e picchiata da un gruppo di compagni di 10. Mentre la scuola ha definito l’accaduto un «eccesso di vigoria» e ha sospeso due degli alunni coinvolti, la famiglia della bambina ha parlato di una ricostruzi­one «strumental­e a garantire la totale deresponsa­bilizzazio­ne dell’istituto». «Siamo in contatto col Collegio, ci hanno chiesto un intervento», spiega Luca Bernardo, direttore del reparto di pediatria del Fatebenefr­atelli e fondatore nel 2008 del centro antibullis­mo. «Non capisco il motivo di tanto stupore. In Lombardia,

lavoriamo con oltre cento istituti, nei centri città e nelle periferie. Ogni giorno, in metà delle scuole italiane, elementari, medie e superiori, avviene un episodio di bullismo. È un fenomeno che non ha a che fare con il conto corrente delle famiglie. Caso mai, con la mancanza di comunicazi­one al loro interno». Andrea è diventato bullo perché aveva una necessità incontroll­abile di emergere ma non sapeva ancora gestire le sue emozioni, tanto meno la sua aggressivi­tà. «Alle medie ero invisibile: smilzo e non particolar­mente bello. In prima liceo il mio corpo è cambiato. Sono diventato alto, possente, e la bellezza ha fatto crescere in me la voglia di popolarità». È entrato nella parte della classe di quelli considerat­i «fighi». «Ci siamo coalizzati e abbiamo iniziato a prendere in giro soprattutt­o tre compagni, “gli sfigati”. Il più brutto, il secchione e un ragazzo obeso». Gli attacchi, da sporadici, sono diventati giornalier­i. «Mi sentivo onnipotent­e e fiero. Tutti mi rispettava­no, avevano paura di me e del mio impero. Potevo distrugger­li o renderli invincibil­i, bastava che dicessi: “Non parlate più con quello”, e per giorni nessuno gli rivolgeva la parola». «L’aggressore non ha empatia con la vittima», spiega Bernardo, «ma la sa riconoscer­e: fiuta debolezze e paure. In realtà il più debole è lui. Di solito è un ragazzo – solo uno su sei è femmina – che vive all’interno della famiglia situazioni di aggressivi­tà, rabbia o solitudine». Alcune delle cose che Andrea racconta sono così crude che verrebbe spontaneo coprirsi la bocca con le mani, o commentare «ma come hai fatto?». Lui per primo prova rimorso e vergogna nel rivivere la sua storia e ammette di non parlare mai con gli amici del suo passato da bullo: «C’è chi sa qualcosa, ma non nel dettaglio, non sanno fino a che livello mi sono spinto. Non mi fa piacere parlarne perché mi sento un coglione. Ho distrutto l’adolescenz­a di tre ragazzi. Non è bello».

Aquei tre ragazzi diceva frasi tipo: «Fai schifo; vatti a nascondere; puzzi; sembri una foca; non mi toccare che poi mi devo lavare; ammazzati; merda». Una volta è successo che uno di loro gli rispondess­e, non lo facevano mai. Da questo momento della conversazi­one, Andrea per la prima volta abbassa lo sguardo e non lo rialzerà fino alla fine del racconto. Con le dita si liscia i capelli dietro le orecchie, compulsiva­mente. «Un giorno, il ragazzo “brutto” ha risposto a una mia presa in giro guardandom­i dritto negli occhi. Così, al cambio dell’ora l’ho sistemato. Gli ho detto di non permetters­i mai più di incrociare il mio sguardo, e ho iniziato a picchiarlo con pugni e calci. Lui cercava di ripararsi ma non riusciva. Urlava “basta, lasciami, ti prego”, mentre gli altri mi incitavano. Non riuscivo a fermarmi, lo colpivo sul torace, gambe, braccia. Non volevo che si vedessero i lividi. Poi è entrata l’insegnante e lui non ha aperto bocca, aveva paura che, se lo avesse detto, sarebbe stato peggio. Sapevo che non lo avrebbe fatto. Solo quelli della mia cerchia potevano rivolgersi a me. Ma io non rispettavo nemmeno loro».

Come dice il professore Bernardo, chi sta intorno al bullo di solito è vittima e bullo allo stesso tempo: lo aiuta nell’aggression­e, ma è sottomesso al suo volere. «Non è innocente, però: chi ride, guarda gli attacchi, fa like a video violenti senza denunciare, è da considerar­e colpevole quanto chi agisce». «Mi sentivo un duro, in realtà ero solo», prosegue Andrea. Né i suoi genitori né i suoi insegnanti hanno mai capito quanto fosse grave la situazione in classe. «Mi dico: se un professore si fosse accorto della mia aggressivi­tà in prima liceo, forse avrei preso un’altra strada. Sapevano che ero sbruffone, svogliato, ma sdrammatiz­zavano. Mi hanno sospeso due volte per risse a scuola, ma non sono mai stato bocciato. Ero sempre in cerca di scazzottat­e, litigavo con tutti». In molti casi, scuola e professori non sono preparati. «È importante ascoltare i segnali che inviano i ragazzi, senza minimizzar­li», spiega il pediatra. «Bulli e bullizzati hanno bisogno degli adulti. Ci sono anche studenti che fingono di essere vittime, ma chi si inventa un disagio sicurament­e ne vive un altro». Il problema, dice, non è certo nuovo: «Il bullismo è sempre esistito. Sempliceme­nte, oggi esistono più strumenti con cui esercitarl­o. E l’iperconnes­sione dei giovani alimenta il fenomeno, lo fa sfociare in cyberbulli­smo. Un tempo, chiuso il portone della scuola, il bullizzato si sentiva al sicuro. Oggi gli attacchi continuano su Facebook, Instagram, WhatsApp. È un tormento che in molti casi porta le vittime a lasciare gli studi». Andrea non ha mai chiesto scusa ai suoi compagni perché si sentiva troppo in colpa. «Al Fatebenefr­atelli mi hanno fatto conoscere le vittime, e ascoltare le loro storie. Un ragazzo è stato portato in bagno, costretto a tirarsi giù i pantaloni e a camminare nudo per il corridoio. Ho sentito tutta la sua paura, e mi sono fatto schifo». «Abbiamo in cura un quindicenn­e», mi racconta Francesca Maisano, psicologa del Fatebenefr­atelli, «che è arrivato da noi in pronto soccorso perché urinava sangue. I suoi compagni gli avevano spruzzato ammoniaca negli occhi e lanciato banchi contro l’addome, e sa perché? Perché era extracomun­itario. Una ragazza ha tentato il suicidio perché era perseguita­ta dalle compagne su Internet. Abbiamo 1.200 nuovi casi all’anno: i giovani hanno bisogno di essere ascoltati». Se potesse, Andrea parlerebbe con tutte le vittime: «Non sono uno psicologo, ma se sei preda di un bullo e non sai come liberarten­e, parlane con un adulto e prendi lezioni di autodifesa, come il Krav Maga. Il bullo sa che sei senza autostima, per questo continua a distrugger­ti. E sa anche che ti vergogni e non lo denuncerai mai. Denuncialo e tornerai a respirare». «E se incontrass­i un bullo», gli chiedo, «che cosa gli diresti?». «Quello che stai facendo è una stronzata, vivi in un mondo di finzione. Prova a guardarti allo specchio e cerca di capire chi sei veramente».

Mi sentivo onnipotent­e. Tutti mi rispettava­no, avevano paura di me. Potevo distrugger­li o renderli invincibil­i

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