MIO PADRE, RITROVATO IN UNA FOTO
Sono orfana di padre da quando avevo due anni e mezzo: ha avuto un infarto e ha lasciato me e mia mamma, giovanissima, che non aveva mai lavorato – papà diceva che ci pensava lui a noi – e si è dovuta rimboccare le maniche. Dicono che le figlie sono le principesse dei papà, ma io di lui non ho ricordi, solo un’immagine elaborata dai racconti di chi lo conosceva. Da piccola non ho sofferto molto la sua assenza perché ero ricoperta dall’affetto di tutti. Il peso l’ho sentito dopo, quando mia madre a scuola diceva subito a tutti gli insegnanti che ero orfana – so che lo faceva in buona fede, per proteggermi, ma da che cosa? – e un po’ lo sento ancora oggi, ventitreenne studentessa di Giurisprudenza, quando mi arrivano gli sguardi di commiserazione. Non è colpa di mio padre se non c’è più, ma io non riuscivo a perdonarlo. Vivevo tutto a metà, amori, dolori, successi, delusioni, perché non potevo dividerlo con lui. Un giorno ho trovato una foto del mio battesimo: io in braccio a papà che mi guarda sorridendo. Mi sono detta che non avrebbe voluto una figlia a metà, che avrebbe voluto solo il meglio per me, mi sono ritrovata nei suoi occhi e ho capito che ero io a dovergli chiedere scusa. Mi piace pensare che mi abbia perdonata e che oggi sorrida dei miei assurdi pensieri. Senza un padre prima si sopravvive ma poi si Vive. —SERENA
Vorrei tanto che le tue parole arrivassero al cuore di tutti, Serena, e non solo di quelli che hanno perso un genitore da piccoli. Perché tutti, nessuno escluso, abbiamo un dolore primario che continuiamo a vivere come una profonda ingiustizia perpetrata dall’universo ai nostri danni. Può trattarsi di una persona amata che ci ha lasciato, ingannato, deluso. O di un sogno calpestato e irriso. Tempo fa ricevetti la lettera di una ragazza della tua età che era entrata come stagista nella start up di un quarantenne affabile e brillante. Costui l’aveva convinta di essere parte di un progetto comune, di una squadra di amici dove onori e oneri sarebbero stati affrontati insieme. Invece, raggiunto il successo, il «capo» l’aveva scaricata senza pietà e lei all’improvviso si era scoperta cinica e disillusa, svuotata di ogni energia. La molla dell’entusiasmo si inceppa, a furia di scattare a vuoto. Rispetto ai traumi giovanili, quelli dell’infanzia hanno la caratteristica di andarsi a infrangere contro una personalità in formazione, distorcendola per sempre. Come saresti stata, se avessi avuto un padre al tuo fianco? Non lo saprai mai e non è sano chiederselo. Ma tu te lo sarai chiesta tante volte, perché sei un essere umano. E nulla turba di più un essere umano della sensazione di apparire diverso dagli altri, specie negli anni dell’adolescenza, quando la sua massima aspirazione consiste nel venire accettato dal branco. Poi si sopravvive, in qualche modo, e si comincia a ragionare e a sentire. Alla ribellione e alla rassegnazione subentra l’accettazione. Mai completa, però: una parte di te continuerà sempre a interrogarsi sulla singolarità del tuo destino. Siamo tutti, chi più chi meno, portatori di handicap emotivi. La vita ci ha menomato, togliendoci qualcosa di essenziale. Uno può decidere di adagiarsi inerte sulla carrozzella, lasciandosi andare allo scoramento. Oppure può aggrapparsi alle ruote della carrozzella e spingere forte. Mettersi in movimento con i propri muscoli indolenziti. Magari per scoprire, chilometro dopo chilometro, che lo scopo della vita non consiste nell’essere perfetti, ma nel diventare completi. Ogni esperienza, anche la più atroce, nasconde un’opportunità di riscatto e apre squarci su nuovi orizzonti. Qualcuno liquiderà queste affermazioni come retorica consolatoria. Può darsi che sia così. Come può darsi che gli esseri umani desiderino soltanto la sicurezza e la quiete. Ma a te la vita ha rivelato fin da subito la sua natura più intima, che non è affatto la quiete, ma il movimento, la mancanza, il viaggio alla riconquista di quanto si è perduto. All’amico che si lamentava per una tragedia impossibile da superare, una persona saggia rispose: «Non prenderla come una condanna, ma come una sfida che ti costringe a metterti in gioco, rivelando agli altri e a te stesso chi sei davvero. Se finirai la vita con lo stesso bagaglio di emozioni di quando l’hai incominciata, la vita non ti sarà servita a niente». Augh.