Vanity Fair (Italy)

MARIANNE MIRAGE «DISEGNA» SANREMO

Per questo, vincere facile. Non le piace MIRAGE MARIANNE , più attesa ai talent show è la i pub. Ora preferito Grazie ha sempre Sanremo. di tra i giovani sicurezza e a una certa «paterna», peregrino» alla scuola uomo «Cerco un che le fa dire:

- Di LAVINIAFAR­NESE

Ero bambina, e mio padre tra le altre cose aggiustava barche a vela: per riportarle ai proprietar­i, navigavamo spesso verso Grecia e Turchia, e intorno per settimane c’erano solo acqua e sole, acqua e stelle. Mi è entrato il mare negli occhi. Per questo li ho così: tersi, celesti, chiari». Fuori dalle finestre larghe dell’ultimo piano dell’etichetta discografi­ca Sugar, c’è una Milano fredda e limpida, e dentro Marianne Mirage disegna calma sul suo taccuino queste sue storie. Resta ancora un po’ del papà pittore e stavolta pure della mamma fisioterap­ista dell’infanzia, amante dei piccoli quaderni: «Mauro e Roberta mi dicevano: “Scrivi, schizza, segna, annota. Che l’essere umano dimentica. Le ore, i giorni”. Così, mi porto da sempre dietro un diario, tipo Toulouse-Lautrec in un bar dell’800 o un Robinson Crusoe che abbozza il tipo di pianta incontrata nel viaggio». Sfogliamo le pagine di questo librino: ci sono aerei e paure, le palme e il faro di Sanremo, «tappa sperata da tutti i cantanti», per lei raggiunta quest’anno con Le canzoni fanno male, testo di Francesco Bianconi dei Baustelle e Kaballà. «Ascoltai quei versi e mi fecero l’effetto di Adele o delle Torri Gemelle: loro esplodono, tu ricorderai dove eri in quell’istante». In un’edizione del Festival segnata dai talent fin dalla scelta della co-conduttric­e di Carlo Conti, Maria De Filippi, lei non ha mai bussato alla porta di Amici e simili. «Il mio è un mestiere, non un Gratta e vinci. Simile al fruttivend­olo o a chi lavora il pane alle 5 del mattino. Si fa andando a suonare nei pub, emozionand­o per 50 euro. Vincere in fretta, facile, non mi è mai interessat­o. La popolarità è qualcosa con cui giocare piano per un’introversa che trascorrev­a i pomeriggi sola nella sua stanzetta a piangere sul letto appena qualcosa non funzionava».

A scuola la prendevano in giro. «Mio padre mi ha avuta tardi, a quasi 50 anni. “C’è tuo nonno”, scherzavan­o i compagni quando mi veniva a prendere. Sono cresciuta in mezzo ai suoi pennelli. Avrei voluto conoscerlo non con i capelli bianchi. La situazione in sé mi ha insegnato a stare bene con età lontane, ad avere rispetto per i più anziani e per il tempo che è meno». Dice che suo papà non è «un bello», e che forse per questo non lo sono stati quasi mai i fidanzati che ha avuto: «Piuttosto tutti avevano un difetto che però a me piaceva. Del mio – questi denti davanti, separati – ho fatto un pregio di unicità. Come dei capelli afro. Piastra, ferro da stiro: li ho lisciati in ogni modo. Da grandi è più facile accettare di essere diversi». In amore poca fortuna. «Sono stata parecchio lasciata. Ma il destino sceglie per noi ciò che è migliore, e lo yoga è salvifico: educa alla tenacia nella pazienza. Ci vorrebbe un uomo libero e peregrino. Con cui vivere in modo trasgressi­vo ed elegante, come la coppia di ragazzi nelle Canzoni fanno male».

Gibson 335 al collo («rossa perché vesto nera ed è una presenza, non può passare inosservat­a») e black soul misto a jazz nelle vene, la prima chitarra la staccò dalla parete della camera della madre («aveva la fissa di Lucio Battisti, imparai per lei La canzone del sole e gliela facevo “trovare” quando finiva di stendere la pasta, o tornava dall’Etiopia dove andava per i bambini, e nelle sue mani sentivo l’odore dell’Africa»). Un giorno però il padre gliela ruppe («se vuoi suonare, devi prenderti questa benedetta laurea in Lettere»). Non mancò. «Mi illuse, però: “Poi sai dopo quanto cuccherai con la chitarra?”. Invece in spiaggia sono sempre rimasta la colonna sonora di tutti quelli che scompariva­no oltre il fuoco, nel buio».

Qui in Sugar siamo nel regno di Caterina Caselli: «Le do del Lei: il Lei non è distacco, ma consapevol­ezza; è la signora della musica, va consacrata». L’ingaggio, quasi un caso. «Mi ero già trasferita a Milano dalla Romagna, Giovanna Gardelli aveva scelto di diventare Marianne Mirage, perché quando si sale sul palco non si può essere qualcosa che esiste già, non puoi continuare ad avere lo stesso nome di quando leggevi Gian Burrasca. Lo insegnano Bob Dylan, Édith Piaf, Billie Holiday. Così ho unito i Marianne e i Mirage, due band degli anni ’60, estetica e follia. Frequentav­o il centro di cinematogr­afia di Giannini, e la sera strimpella­vo per pochi euro in un locale sui Navigli. Uno si ferma, mi chiede un cd: era pieno di brani in ogni lingua, colpa dell’adolescenz­a on the road tra Berlino e Parigi. Audizione, contratto, è fatta». Dopo Quelli come me, oggi il secondo Ep – registrato a Londra, in studi vincitori di Grammy – è in uscita e Marianne vive a Milano in 18 mq: «Le chitarre, i libri, i disegni, il computer, la vasca, tutto è vicino. Una casa sono le passioni che hai». Sta nuda volentieri («la libertà sposta i confini, si può creare, non ha pregiudizi ed esige di non esserne oggetto»), e all’Ariston non dovremo prenderla sul serio, quando canterà «non voglio più amore. Per la vita, per un anno, per favore». «Me lo sono ripetuto a ogni stangata presa. L’ho urlato e pianto, mi ci sono disperata. Però rimane assurdo anche solo pronunciar­lo».

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 ??  ?? AL DEBUTTO Mirage, Marianne gara 25 anni, in proposte tra le Nuove Sanremo di al Festival con Le canzoni fanno male.
AL DEBUTTO Mirage, Marianne gara 25 anni, in proposte tra le Nuove Sanremo di al Festival con Le canzoni fanno male.
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