Alessandro Baricco
ARCHIVO GENERAL DE INDIAS
Si facevano delle grullate di genio niente male, negli anni Settanta, come dicevo, parlottando del Beaubourg di Renzo Piano, la scorsa settimana: approfittavano, mi ha spiegato il Geometra, del fatto che il ’68 era passato lasciandosi dietro un po’ di porte aperte. Un anno prima dell’inaugurazione del Centre Pompidou, per esempio, due trentenni americani – uno con l’aura da primo della classe e l’altro con una faccia che sembrava una caricatura – buttarono fuori una cosa che si intitolava Einstein on the Beach. Non il primo della classe, l’altro, si chiamava Philip Glass, e lo scorso martedì ha compiuto 80 anni: giù il cappello. L’Archivo festeggia: ci sarebbero tante cose da sfilare via dagli scaffali, e rigirarsi tra le mani, ma mi concentro su una, quella lì.
Einstein on the Beach, in teoria, era un’Opera. O almeno, questa era l’idea del primo della classe, Bob Wilson, che l’aveva concepita. Naturalmente la parentela con Madama Butterfly o La Traviata era una sottile linea rossa che vedeva solo lui. Ma è importante registrare che su questo lui non aveva dubbi: voleva arrivare a metterla in scena al Metropolitan, e ci riuscì. Gli serviva ovviamente un musicista, e scelse Philip Glass: conoscendo la musica che quell’uomo faceva, era una scelta priva di qualsiasi senso. Funzionò a meraviglia. La musica che quell’uomo faceva era una musica classica inaspettata e sconcertante: era come un bambino geniale che si fosse infilato di nascosto nel garage del padre e si fosse messo a giocare. Infilava le dita nel grasso lubrificante, trafficava col trapano, saliva in macchina e faceva finta di guidare, ma coi piedi. Il senso di marachella e di piacere fisico era evidente. Io, ai tempi, non avevo neanche vent’anni (ho contato tre volte, questa volta non posso sbagliare): capivo poco, ma capivo abbastanza per sapere che quell’uomo stava dicendo una cosa che adoravo: l’intelligenza non sarebbe morta per autosoffocamento: avrebbe invece cucinato piatti che ci sarebbe piaciuto mangiare. Bastava avere quella strafottenza, quel coraggio, quella libertà e un talento micidiale. Va detto che in molti pensavano semplicemente fosse un ridicolo fast food della musica. E in fondo, non fosse stato americano, lo avrebbero fatto a pezzi. Ma se quegli arpeggetti li fai a New York… Insomma, alla fine è finita in gloria.
Einstein on the Beach non aveva neanche una trama. Più che altro galleggiava senza meta sul lago di un pensiero, il seguente: adorabile quello scienziato che suona il violino, fa le linguacce, non si pettina mai e ci insegna la leggerezza, molto adorabile, ma com’è allora che dal suo sapere è venuta fuori la bomba atomica? Bum. Niente di particolarmente sofisticato, come si vede, uno di quei pensieri che ti vengono in treno. I due, però, avevano del genio, e misero su una cosa in 4 atti, 9 scene e 5 piccoli snodi (Knee Plays, li chiamarono, perché curvavano la linea dello spettacolo, come ginocchia, knees). Non solo non c’era trama, ma tanto per chiarire come stavano le cose, Bob Wilson avvertì il pubblico che poteva entrare e uscire quando gli pareva. Tempo dopo, lo stesso Glass disse di non averla mai sentita tutta di fila. Era quel genere di cose che, ai tempi, ma in fondo anche adesso, trovavo irresistibili. Quanto alla musica, prendo un esempio, forse il più famoso. Knee Play #5. Si tenga conto che venivamo da Traviata, Puccini, Moses und Aron di Schoenberg e poi quelle cose là dove l’intelligenza si stava autosoffocando. Quel che succedeva in Knee Play #5 era che il coro cantava, su poche note ribattute e elementari, il seguente testo: 1 2 3 4 1 2 3 4 5 6 1 2 3 4 5 6 7 8 Be’, in inglese, ovviamente. (Non ridete, ecco le prime parole delle Nozze di Figaro: Cinque... dieci... venti... trenta... trentasei... quarantatré... Se non ci credete, controllate). Poi entrava una voce femminile che parlava. E dopo, un’altra, anche lei a parlare, ma parole differenti.
In teoria doveva venirne fuori un casino fastidioso, ma la verità invece era che ti ritrovavi in un paesaggio stranissimo dove era tutto molto sofisticato, sperimentale, utopistico, cervellotico ma anche naturale, piacevole, emozionante. Era un posto dove avresti potuto abitare, non solo un laboratorio dove fare esperimenti quando ti sentivi intelligente, se capite cosa voglio dire. Tutto si muoveva in modo strano, per successive piccole trasformazioni, sprigionate dal rito della ripetizione, che determinava minuscole trasformazioni facendo muovere il tutto in un modo strano, che procedeva per trasformazioni alle volte minuscole, ottenute attraverso la ripetizione di alcuni blocchi, che nel tempo si trasformavano in modo minuscolo generando una sorta di strano movimento al rallentatore che inanellava trasformazioni anche piccolissime e lo faceva ripetendo in continuazione lo stesso materiale sonoro, solo modificandolo in modo appena percettibile così da generare l’effetto di un movimento immobile. Così. A un certo punto entrava un violino e poi una voce di un uomo, anche un po’ selvatica, non da attore – sembrava uno preso in un bar. E leggeva qualcosa, un testo neanche troppo memorabile, una cosa su due innamorati su una panchina al parco: ma con la voce di uno che stava recitando una saga antica, un poema ancestrale.
Era tutto sbagliato, in un certo senso. Non poteva stare in piedi. E invece era bellissimo – o almeno, era abbastanza bello in un modo bellissimo. Lo penso ancora adesso, che pure tanti anni sono passati (quaranta) e il paesaggio sonoro del mondo è radicalmente cambiato: è stupefacente ma è musica che potrei fare ascoltare a mio figlio senza perdere troppi punti, magari guadagnandone persino un po’. Chissà com’è avere 80 anni e vedere che nelle tue visioni di quando eri giovane ci possono abitare animali che davanti a una cabina telefonica chiedono A cosa serve? (Avrei come obbiettivo di scoprirlo, tra un po’…)
Lo stesso Glass non sentì mai l’opera tutta di fila