CARO PAPÀ
o 32 anni e una vita bloccata. Da sempre mi sento ripetere dagli altri che non è possibile che mio padre sia come lo descrivo – lui così distinto, sempre in giacca e cravatta –, che devo essere pazza. Ci ho creduto anche io, di essere pazza, pur di far quadrare i conti e vivere in un mondo in cui il gessato di un uomo sembrava garanzia di perfezione genitoriale. Il 19 marzo ho visto su Facebook il tripudio di foto e frasi aettuose per i grandiosi uomini che altri chiamano padre e mi sono arrabbiata: io quella parola per lui non voglio più usarla. Non è un padre chi ti urla addosso parolacce se rispondi al telefono in modo sbagliato, chi ti dice che avrebbe dovuto aogarti da piccola. Zero incoraggiamenti, tante umiliazioni: non mi ha mai fatto sentire degna di essere nata. Ho provato a spiegarlo a chi non capiva i miei attacchi di panico, la tachicardia che mi prendeva per una porta sbattuta troppo forte. Ho trovato conforto nella terapia e sono scappata da un mondo che mi puntava addosso il dito. Ma non se n’è andato quel senso di solitudine nel constatare quanti preferiscono ngere di non vedere la vittima che hanno davanti. Non voglio essere compatita ma capita, e rassicurata sul fatto che non è stata colpa mia, che non ho fatto nulla per meritarmelo. Altrimenti rischio di dubitare di me, della mia sanità mentale. E, anche se sono adulta, mi rimane dentro una bambina che piange disperata sotto il letto. C.
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