LA GUERRA SILENZIOSA
Uccisa con 8 colpi, come gli anni del iglio che era con lei. L’omicidio della reporter MIROSLAVA BREACH è uno tra i tanti (15 mila persone ammazzate in un anno) che insanguinano il Messico. Senza fare rumore
Miroslava hanno tagliato la strada mentre accompagnava il glio a scuola. Ricardo lo hanno aspettato fuori dal ristorante dove aveva cenato con la famiglia. Per Cecilio si sono appostati vicino al lavaggio auto dove andava regolarmente. Tre storie in tre luoghi diversi del Messico – Chihuahua, Veracruz, Guerrero –, un solo nale e una sola rma, calibro 38. Miroslava Breach era quel che si dice in questi casi, una reporter «coraggiosa», ma se glielo avessimo chiesto probabilmente si sarebbe de nita solo come una persona che fa seriamente il proprio lavoro. Per 15 anni ha scritto su La Jornada tutto quel che le succedeva sotto al naso dopo esserselo accuratamente tappato. Corruzione, droga, prostituzione minorile, politica. L’avevano minacciata spesso, ma Miro se n’era fregata. E quando ha pubblicato la storia del partito di maggioranza (Pri) che in la tra i candidati i membri del narcotraco, sono andati a cercarla. Davanti al bambino di 8 anni, le hanno sparato otto volte per stare sul sicuro. Poi hanno appoggiato un cartello sul cadavere: «Spia». E così – più o meno – è andata con Ricardo Monlui e Cecilio Pineda Birto, entrambi freelance, alle prese con storie di narcos e pezzi grossi della politica. Totale: tre giornalisti accoppati nel giro di un mese in Messico che raggiunge quota 98 morti ammazzati da quando esiste questa macabra statistica, il 1992. Per la cronaca, la percentuale di omicidi impuniti è vicino al 100%. In un mondo contaminato da fake news e da media che danno a Kim Kardashian la stessa rilevanza del global warming, si prova un tragico senso di sollievo nello scoprire che c’è chi è ancora disposto a rischiare tutto in nome della verità. Non è una consolazione, anche perché i dati mondiali sulla libertà di stampa sono allarmanti. Secondo il Committee to Protect Journalists, solo nel 2015 sono morti 115
ASul cancello della Procura Generale della Repubblica, a Città del Messico, la protesta del 1° aprile per denunciare gli omicidi dei giornalisti. giornalisti (non si calcolano quelli scomparsi nel nulla oppure morti in circostanze non chiarite). Il Messico, un Paese in guerra senza che lo si ammetta (oltre 15 mila vittime nel 2016), detiene il record. Dopo, ci sono Afghanistan, Siria, Iraq e un Egitto in rapido peggioramento. E poi ci sono le cosiddette democrazie, Paesi che consideriamo partner, se non addirittura amici, in cui i giornalisti si dividono in due categorie: quelli amici del potere e quelli che rientrando a casa la sera rischiano di nire se va bene con qualche osso rotto. La Russia fa scuola in materia di pratiche «persuasive» nei confronti di reporter. Almeno un centinaio di aggressioni e torture sono state denunciate nel 2016 da organizzazioni per i diritti umani. Le vittime? «Colpevoli» di denunciare corruzione politica e connivenze tra il Cremlino e le forze paramilitari in Ucraina. Nella classi ca per la libertà di espressione di Reporters Without Borders, la Russia è infatti al 148° posto su 180, sta appena davanti alla nuova rivelazione, la Turchia, un Paese dove reporter e terroristi sono la stessa cosa. In una quasi totale indi¤erenza, escluso qualche sporadico sfogo indignato, in due anni Erdogan ha chiuso 45 giornali, 28 stazioni radio, 15 settimanali, 16 canali Tv e 3 agenzie di stampa. I giornalisti niti in carcere per aver «o¤eso» il premier sono oltre mille. Due di loro, Can Dündar e Hayko Bagdat, hanno fondato Özgürüz («Noi siamo liberi»), un sito che denuncia le mire totalitarie di Erdogan. Lo gestiscono in incognito, utilizzando sistemi sempre più so sticati per aggirare i blocchi che subiscono sulla Rete. Hanno ricevuto minacce di morte. Il loro destino, così come quello di Miroslava, pesa anche sulle nostre coscienze.