Vanity Fair (Italy)

IO IL GIOCATORE DI BASKET IN NBA

I COMPAGNI DI SCUOLA VOLEVANO FARE IL POLIZIOTTO O IL DOTTORE,

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L’uomo si sporge dal nestrino e agita un cellulare. Marco Belinelli è in posa per il servizio di queste pagine, ma lascia tutto e attraversa la strada, mentre il semaforo avverte che mancano 6 secondi, 5 secondi, tra poco scatta il rosso. Impassibil­e in mezzo al traf

co, dall’alto del suo metro e 96 si china nell’abitacolo e si concede al sel e del tifoso. In tre giorni, capiterà solo un’altra volta che un fan venga a chiedere uno scatto con la guardia degli Charlotte Hornets. Qui in North Carolina, mi spiega «Beli», è tranquillo, solo a New York, a Los Angeles, i giocatori di basket diventano celebrità. Eppure questo trentunenn­e emiliano le carte in regola per essere una star le ha tutte. La sua è una storia di determinaz­ione e umiltà, come gli piace ripetere. Nel 2007 è partito per gli Stati Uniti dalla provincia bolognese: un semplice «ragazzo di San Giovanni in Persiceto» si de nisce, anche se già allora spiccava per talento. E infatti nessuna valigia di cartone, ma subito un contratto milionario con i Golden State Warriors, squadra di San Francisco. Da lì, è passato poi per New Orleans, Chicago, San Antonio, Sacramento, persino in Canada, a Toronto, prima di fermarsi a Charlotte. Oggi tocca il traguardo dei dieci anni in Nba, unico italiano ad averne vinto il titolo ed essersi aggiudicat­o il Three Point Shootout, gara in cui bisogna segnare il maggior numero di canestri da tre punti in un minuto. Non si può dire che il suo American Dream non l’abbia realizzato, che dall’Italia non sia emigrato con successo. Beli ha una faccia genuina come il suo accento, italoameri­cana quanto basta per soprannomi­narlo Rocky. Hanno cominciato i tifosi dei Golden State Warriors a chiamarlo così, tirando giù il palazzetto con i cori, e alla ne gli è rimasto addosso. Prima della California, l’America l’aveva vista sempre e solo in Tv, ma la sentiva nel suo destino, «l’inglese era una delle materie in cui andavo meglio». Oggi per questo Paese ha sviluppato un senso di appartenen­za ma anche un timore reverenzia­le, il ricordo di un incontro con un ubriaco a San Francisco, «sono un cagasotto, io, vado proprio via in questi casi», gli annunci degli scomparsi lungo le highway, le auto della polizia con le sirene, «una volta sono stato fermato perché avevo superato il limite di velocità, ti puntano le luci addosso attraverso il nestrino, così non puoi vedere

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