Vanity Fair (Italy)

SFIDA DA CAMPIONI

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quando arrivano. Scene un po’ paurose da lm, in Italia ne guardavo parecchi». Nel 2015 è stato alla Casa Bianca, Obama l’ha elogiato. Gli chiedo se rifarebbe la stessa cosa con Trump, molti atleti si sono già ri

utati. Risponde di sì, senza esitazione. Perché di politica si interessa «il giusto» e perché «da italiano, non giudico. Andare alla Casa Bianca è un’esperienza indimentic­abile, una cosa che riempirebb­e d’orgoglio me e penso anche tutta l’Italia. Quando ho vinto la gara da tre punti avevo le scarpe con il tricolore, lo portavo sulle spalle quando ho vinto il titolo Nba. Mi piace rappresent­are il mio Paese». Quella patria che è lontana, e si sente in ogni discorso. «L’America mi piace per la vita, il lavoro, il divertimen­to. Però l’Italia, con le sue piccole case e le sue piccole strade, mi manca. Mi hanno chiesto spesso cosa farò dopo il ritiro: non vivrò mai qua. Ho una casa a Miami, magari farò avanti e indietro, però sso qui non me la sento. Mi sento proprio italiano dentro». CHE COSA LA RENDE «MARCO BELINELLI»? «Ho ricevuto l’educazione giusta.

Vado ero di me stesso». L’umiltà, dice Beli, è quello che fa una brava persona. Piedi per terra, testa sulle spalle, gli insegnamen­ti degli allenatori, «i primi a tirarmi una sberla se mi montavo un po’ la testa». Lo stile di vita semplice, niente villoni, l’auto che non è «una Ferrari o un’altra che ti aspetteres­ti da chi

rma un contratto importante, tanto io di macchine non ci capisco». I soldi spesi, da buon emiliano, per mangiare bene, ma poi a casa a cucinare spesso arriva il fratello di mezzo, Umberto, «bravissimo», l’unico dei tre Belinelli che non ha mai fatto basket ma pattinaggi­o artistico, «se vuoi puoi scriverlo, lo prendiamo sempre in giro». Perché un campione di pallacanes­tro nasce così: il fratello maggiore Enrico se lo porta sul parquet con gli amici, anche se sono più grandi, «magari un ragazzino dice: ho paura, le prendo. Invece io mi divertivo, per me questo sport è sempre stato un amore pazzesco. A scuola, i miei compagni dicevano che da grandi volevano fare il carabinier­e, il poliziotto, il dottore. Io il giocatore di basket in Nba». I genitori sono sempre stati contenti di quel glio che a vent’anni se n’è andato in America. «Ora lo capisco che hanno fatto tanti sacri ci. Da San Giovanni mio padre mi portava a Bologna, nella Virtus mi allenavo anche due volte al giorno e doveva prendersi turni di riposo per stare lì dalle due alle sei». La mamma, poi, «ha un orologio nel cuore, si alza senza sveglia per guardare le partite. Che vinciamo o perdiamo, mi manda un messaggio con scritto “Bravo, compliment­i, andiamo avanti”, poi torna a letto». La lontananza si allevia un po’ con gli smartphone, anche quella per la danzata «storica», Martina: «Era con me quando sono stato chiamato in Nba, i primi due anni veniva per un mese, due. Ci siamo lasciati quando ero a Toronto, poi ci siamo rimessi insieme, poi mollati di nuovo. Dall’anno scorso ci siamo ripresi, è una cosa seria, stiamo molto bene. Anche se per adesso va così: sempre al telefono, sempre messaggi. È dura, cresci e pensi di dover mettere la testa a posto». COME AZZURRI NON AVETE VINTO TITOLI, A RIO 2016 NON VI SIETE QUALIFICAT­I. COSA VI È MANCATO? «Le palle». A settembre ci sono gli Europei e Belinelli mi dice che non vuole essere ricordato come «il ragazzo con tanto talento che non vinse mai nulla con la Nazionale». Racconta che negli anni hanno scontato prima l’inesperien­za, poi la scarsa determinaz­ione, ma che ora le sensazioni sono positive: «Abbiamo fatto tanti errori, ma le carte in regola ci sono. Abbiamo un grande allenatore (Ettore Messina, ndr), ragazzi in gamba. Io credo in questo gruppo. E voglio vincere qualcosa». La determinaz­ione alimenta sicurament­e uno che in America è arrivato «non dico da stellina, ma avevo vinto campionato e supercoppa, giocavo tanti minuti, ero una delle promesse europee. E anche se il primo anno in California facevo fatica a mettere piede in campo, non ho mai mollato. Leggevo i giornali: Belinelli non è da Nba, Belinelli non è pronto, Belinelli deve tornare in Europa. Non li ho mai presi come scon tte, non mi sono mai detto: vabbè, parto. Sono qua perché voglio giocare a basket. Divertirmi, certo, perché so che si vive una volta sola, ma la cosa principale è essere un profession­ista Nba». Lo dice, e si capisce che è vero: pur di continuare il suo sogno americano, è pronto a tutto. E non per i soldi, o per la fama: «Cerco di essere un esempio positivo, sono un ragazzo normale». Così normale che l’anello in oro e brillanti dato a ogni giocatore vincitore del titolo Nba «ogni tanto me lo guardo, me lo tocco, sono sincero», però poi non se lo mette, anche perché è troppo pesante. Decisament­e più comodo il «Pesco d’oro», il premio per il cittadino più rappresent­ativo di San Giovanni in Persiceto che gli hanno conferito nel 2014. Pagg. 114-115: jeans, Orologio, Sneakers Air Vapormax Flyknit, pullover a coste e jeans, Pag. 118: T-shirt mélange,

Audemars Piguet.

Pagg. 116-117: Orologio,

Audemars Piguet. Stone Island. Nike. Stone Island. Nike.

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