SULLE MANNEQUIN
collezione. Ne realizzano una, due o tre degli outt più iconici; oggi sono circa un’ottantina, e vivono protette in un magazzino. «Esprimono il nostro desiderio di congelare il tempo. La moda è così volatile, tutto viene gettato via dopo sei mesi. Con le bambole cerchiamo di aggrapparci alle idee che in potenza sono belle. Sono repliche di antiche bambole vittoriane che indossano abiti contemporanei, e così c’è una continua tensione tra storico e moderno». Chiedo come sono cambiati in questi venticinque anni insieme, e mi rispondono che la loro crescita è testimoniata dal loro lavoro, che è un po’ come un autoritratto. «Perché usiamo il modo in cui ci sentiamo, le nostre esperienze, per creare. Se non stiamo bene, dobbiamo usare questa sensazione. Una volta, per esempio, abbiamo fatto una collezione che si chiamava NO, perché non riuscivamo a trovare un altro tema e questa parola continuava a saltare fuori». O ancora: «Un’altra volta ci siamo basati su dipinti, letteralmente: gli abiti potevano essere indossati o appesi al muro. L’abbiamo creata quando abbiamo deciso di smettere con il prêt-à-porter. Volevamo dire molto chiaramente che per noi la couture è arte». Già, l’arte, così importante nel loro immaginario. Non a caso si fanno chiamare fashion artist. Si ispirano a Munch, allo scultore canadese David Altmejd, ma anche a pianisti e cantanti (l’ultima con cui hanno collaborato è Madonna), sempre alla ricerca di una femminilità surreale: «Potremmo chiamarlo barocco minimalista, e forse è lì che emerge la nostra parte olandese». Ma l’arte è anche quella delle abe che amano, surreali pure quelle. Tra le loro preferite ci sono La Sirenetta e La Regina delle Nevi, «quelle tristi» di Andersen, ma ce n’è anche una tratta dal libro di favole che hanno scritto nel 2011, Sprookjes. Racconta di una mosca che vive solo un giorno, e mentre ne parlano perdono la loro abituale compostezza. Perché per quella mosca «è un giorno molto speciale, in un posto molto speciale», ed è facile intuire, da quanto ridono, come due bambini che hanno fatto una marachella, quale sia il «posto speciale» su cui si posa la mosca. Ma dura un attimo, poi tornano seri loso-artisti-designer. «Per favore, la legga. È una storia divertente, ma fa anche riettere. Sulla vita, sulla morte. Sul ringraziare la sorte». E loro sicuramente lo fanno, per essersi incontrati venticinque anni fa in un’aula di disegno.