Vanity Fair (Italy)

LE AMMINISTRA­TIVE IN TRE TWEET

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Il centrodest­ra unito è competitiv­o (ha vinto a Genova, Verona, L’Aquila, Pistoia), ma alle politiche è un’altra storia.

Alle amministra­tive di domenica 25, il centrodest­ra unito (Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia) ha conquistat­o città importanti come Genova e Pistoia, dove ha sempre governato la sinistra a ’liera corta a chilometri zero Pci-Pds-DsPd, poi Verona, L’Aquila. E ha vinto a Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrad­o d’Italia. Insomma, ha prevalso la linea di Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria, che chiede l’unità del centrodest­ra, ma è molto di—cile che questo schema possa reggere alle prossime elezioni politiche. Berlusconi non può accettare di farsi egemonizza­re da Matteo Salvini, che da quando è segretario ha provato a trasformar­e la Lega Nord da partito secessioni­sta in partito lepenista. Il paradosso dell’ex presidente del Consiglio è dunque questo: ha vinto le amministra­tive, ma la sua linea antisalvin­iana si è indebolita. In più, il centrodest­ra non può fare a meno di Berlusconi, ma lui non può neanche candidarsi. Gli elettori, intanto, ci sono: hanno solo bisogno di un leader e di uno schieramen­to. Hai detto niente.

Il centrosini­stra ha seri problemi nelle regioni rosse, come Emilia-Romagna e Toscana. Ma più di tutto conta la scon†tta di Genova.

Matteo Renzi è rimasto fermo al referendum del quattro dicembre 2016. Non è più uscito da quella notte che gli è costata la sconfitta e le dimissioni da presidente del Consiglio. Ha evitato di fare campagna elettorale, dicendo al Corriere della Sera che tanto i candidati al ballottagg­io appartenev­ano alla gestione precedente. Come se lui non fosse il segretario del Pd e quindi anche il segretario di quei candidati (scon’tti). Come se ormai Renzi non avesse una consistent­e storia politica alle spalle: è stato presidente del Consiglio, ha vinto due congressi di partito. L’ex sindaco di Firenze invece sembra sempre all’opposizion­e, anche di se stesso. Oltre ad aver perso Genova, città simbolo della sinistra, il centrosini­stra fa molta fatica nelle cosiddette «regioni rosse» (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria). Come osserva l’istituto di ricerca Cattaneo, «le regioni di quella che un tempo si sarebbe de’nita “subcultura rossa” difficilme­nte possono continuare a essere considerat­e il punto di riferiment­o indiscusso, per non dire il modello, di una partecipaz­ione politica ed elettorale ampia, di¢usa e stabile nel tempo. Anche l’elettorato di queste regioni, e in particolar modo quello dell’Emilia-Romagna, mostra segni evidenti di disaffezio­ne e distacco nei confronti della politica e dei suoi riti democratic­i».

La vittoria di Federico Pizzarotti a Parma dimostra che un candidato ex M5S può vincere anche senza il brand del partito di Grillo.

Era presente, al secondo turno, in appena dieci ballottagg­i: il Movimento 5 Stelle si è lasciato sfuggire sindaci che in questi anni aveva espulso, come Federico Pizzarotti, che a Parma ha battuto il candidato del centrosini­stra, dimostrand­o che un amministra­tore può emancipars­i dal partito del Casalgrill­o (Casaleggio + Grillo) e mantenere intatto, da indipenden­te, il proprio consenso. Senza marchio. Viene però da chiedersi come mai il M5S sia così debole nelle competizio­ni locali. Un cortocircu­ito non da poco, visto che il Movimento nasce in origine come lista civica per le amministra­tive. «Struttural­mente, non è una formazione politica adatta alle competizio­ni elettorali locali», spiega il politologo Marco Tarchi, studioso di populismo. «I suoi militanti non conducono con continuità attività sul territorio che fuoriescan­o dai limiti canonici del movimentis­mo, non curano i rapporti interperso­nali, insomma non costruisco­no quel reticolo di frequentaz­ioni e sostegni che consente di pescare voti in varie categorie quando si tratta di eleggere un’amministra­zione comunale. È un problema di organizzaz­ione, più che di classe dirigente». Citofonare Luigi Di Maio, responsabi­le enti locali del M5S.

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