Vanity Fair (Italy)

BALLIAMO PER DIMENTICAR­E

L’hanno de inita «la Björk israeliana». NOGA EREZ per ora ringrazia, ma nei suoi progetti c’è molto di più: diventare una musicista che dice delle cose sul suo Paese. Anche scomode

- di ALBA SOLARO foto TONJE THILESEN

Se non fosse una ventenne israeliana, forse Noga Erez non avrebbe l’attenzione che sta ricevendo. Ma questa è lei: 27 anni, cresciuta a mezz’ora di macchina da Tel Aviv, un contratto con un’etichetta berlinese molto cool, City Slang, un album d’esordio che a dispetto del titolo, O the Radar, l’ha messa al centro dell’attenzione. «In un mondo dove sei costanteme­nte parte di qualcosa, e condividi ogni singola esperienza, mi sembrava giusto rivendicar­e il diritto a mettersi o‚. Se non altro per capire meglio in che razza di mondo sei». Il suo è ben riassunto in pezzi di musica elettronic­a che non lasciano spazio ai fraintendi­menti, già dal nome: Global Fear, Worth None, Dance While You Shoot, quest’ultimo una dedica feroce alla sua città. «Amo Tel Aviv, c’è tutto quello che puoi desiderare, ca‚è, gallerie, musei, nightclub che non si fermano mai. Personalme­nte questi ultimi non mi hanno mai conquistat­a, non amo che sia un dj a scegliere cosa voglio ascoltare. Ma il punto è un altro: come facciamo a ballare e a divertirci come se fosse sempre l’ultimo dell’anno, quando a un passo da te ci sono i territori occupati, la gente che muore, odio e violenza?», mi dice, e continua: «Israele è interessan­te anche per questo, è pieno di conˆitti come accade nei Paesi meno sviluppati, eppure qui c’è benessere e una cultura occidental­e. Balliamo per dimenticar­e che potremmo morire in ogni istante? È una spiegazion­e banale, ma c’è un po’ di verità». Cresciuta in un Paese dove le famiglie mandano ancora i ‹gli a scuola su autobus diversi, Noga ricorda bene i missili piovuti sulla città tre anni fa: «Poi ci si abitua a tutto, o si dimentica ‹no al prossimo allarme che scatta. Il bello è che ogni volta che succedeva pensavo, basta, siamo in mano a un governo che non sa come gestire la situazione. Poi mi dicevo, ok, posso sempre prendere le mie cose e scappare in Europa che è un posto sicuro! Ma non esiste più nessun posto così. È triste che lo stiano scoprendo anche i ragazzini di Manchester o Parigi».

Alla musica lei è arrivata con una laurea alla Jerusalem Academy of Music and Dance: «Ho vagabondat­o dal pop all’heavy metal, perché lo ascoltava mio fratello, e poi dal prog rock alternativ­o all’hip hop. Alla ‹ne ho scoperto l’elettronic­a, che è il modo più semplice per poter fare musica da indipenden­ti». Chi l’ha vista di recente al Primavera Sound di Barcellona, l’ha paragonata a FKA twigs per lo stile rarefatto, l’intensità. C’è già chi l’ha etichettat­a «la risposta israeliana a Björk». «Capisco il gioco, lo faccio anch’io quando sento una band nuova e non so spiegare che genere fanno. E poi, come potrei non sentirmi onorata? Per ora arrossisco con pazienza. Diciamo che dal prossimo album mi farà meno piacere». I suoi genitori si sono conosciuti quando erano nell’esercito, e anche lei ci è passata, a 18 anni: «Ho avuto la fortuna di fare il soldato come musicista, viaggiando e suonando anche all’estero per comunità ebraiche. È stata tutto sommato un’esperienza positiva che mi ha portato dove sono ora. Si entra nell’esercito giovanissi­mi con la testa ancora da plasmare. Io poi non ho un buon rapporto con l’autorità: mi sono beccata diversi provvedime­nti disciplina­ri perché invece di stare zitta rispondevo agli užciali». Erez è poco portata ai compromess­i; Pity è un pezzo molto forte tratto da un fatto vero, lo stupro di una ragazza in un club di Tel Aviv, ‹lmato dai presenti, poi postato su YouTube e diventato virale: «Guardare quel video è sicurament­e una violazione dei diritti di quella ragazza, ma per me il punto è che chi ha girato il ‹lmato dovrebbe essere punito per stupro come gli altri. Ci vogliono pene molto più dure verso chi condivide questo genere di video sui social».

Eil boicottagg­io artistico verso Israele? Per Noga è sacrosanto: «Con tutto il rispetto per band come i Radiohead, che invece hanno scelto di suonare a Tel Aviv (il 19 luglio, ndr), sono d’accordo: penso sia importante non fare ‹nta che qui sia tutto normale perché non lo è. Se io volessi fare amicizia con artisti palestines­i, per esempio, dovrei attivare dei canali particolar­i; non può sempliceme­nte succedere che diventiamo amici perché abbiamo studiato insieme o frequentia­mo lo stesso bar. Nei mesi scorsi mi sono interrogat­a molto su quanto fosse giusto usare la mia musica per dire delle cose sul conˆitto e su un governo di cui non condivido le scelte. E ho deciso: voglio essere una musicista che viene da Israele e vuole dire delle cose su quello che succede nel suo Paese».

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